domenica 16 dicembre 2012

Che cosa non si può dire?


Venerdì scorso avevo postato su fb un pezzo assai poco condiviso. Questo. Venti bambini "giustiziati" a New Town in Connecticut nel più progredito Paese dell'Occidente. Dove la follia supera l'immaginabile. E dove i politici contendenti non osano sfidare leggi e senso comune che autorizzano l'assassino a comprare l'arma nel supermarket. Per molto meno - sì, per molto meno o per niente - quel Paese ha esportato "giustizia" in plaghe lontane. Per molto meno - per un po' di corruzione e latrocinio - nel nostro Paese chiediamo ai politici di farsi da parte. Chi si dimetterà negli Usa? Obama, il governatore del Connecticut, l'intero Congresso? Chi invaderà gli Usa per fare giustizia? P.S. Scusate, bambini. Abbiamo altri pensieri. Non potevamo occuparci di voi. Non mi aspettavo consensi. Consideravo più probabili dure contestazioni del tipo: "Ma che dici? Dimissioni di Obama? Invasione degli Usa?" Non ci sono state contestazioni invece. Sono stato perdonato, come vengono perdonati gli amici per qualche momento di malumore. Probabilmente non sono riuscito a comunicare il significato della provocazione. E non ci riuscirò neanche ora. A parte l'emozione dolorosissima, un folletto inquieto mi suggeriva davvero l'incongruità della gerarchia dei nostri valori. Cosa perdoniamo e cosa no. Chi perdoniamo e chi no. I cimiteri sono pieni di persone che abbiamo ritenuto non meritassero perdono: da Saddam a Bin Laden. E la critica feroce, se non la galera, colpisce non solo corrotti, corruttori ed evasori, ma anche i vertici dello Stato per aver distolto lo sguardo, per avere protetto, etc. Benissimo. Ma per l’orrore di Newtown chi pagherà? Chi paga per la disattenzione verso i mostri che ci camminano accanto? Chi per lo scambio fra politica e lobby? Però qualcosa di quello che è successo dopo mi suggerisce l’opinabilità assoluta dei discorsi. Così, impavidamente, Larry Pratt, direttore esecutivo di Gun Owners of America, ha accusato i sostenitori della necessità del controllo sulle armi di avere "le mani sporche di sangue di bambini". "Leggi federali e statali insieme", ha spiegato, "fanno in modo che nessun maestro, nessun amministratore, nessun adulto della scuola di Newtown avesse una pistola. Questa tragedia indica l'urgenza di eliminare il divieto di armi nelle aree educative". Proprio nella notte tra giovedì e venerdì, il Michigan ha approvato una legge che permette al personale di vigilanza nelle scuole di portare armi, purché non visibili. D’accordo. Non ci sono giudici che possano valutare la verità di un discorso. Così quel tale Pratt e quelli che la pensano come lui forse prevarranno. La prossima volta il potenziale assassino non oserà varcare, armato di pistole e fucili, il cancello di una scuola. Avrà paura della reazione armata dei custodi e degli insegnanti. Sparerà un missile sulla scuola. N.B. Temo che la lobby delle armi troverà presto fra i veleni dell’idiota senso comune l’argomento decisivo: “Sapete quante migliaia di posti di lavoro sarebbero distrutti da leggi che proibissero di armarsi nel supermarket?”. Allora le menti stremate da secoli di mercato ci suggeriranno di asciugare le lacrime. Non è facile riconvertire operai e commercianti di pistole e fucili in coltivatori di gelsomini.

domenica 9 dicembre 2012

La destra che piace alla sinistra


Parto dall’assunto di due destre e di due sinistre. Chiamo destra la cultura della conservazione: di abitudini, assetti sociali, proprietà. Chiamo sinistra la cultura del cambiamento e dell’eguaglianza. Nella destra c’è un’area ribellistica che usa i valori come pretesto per menare le mani. A sinistra lo stesso. Mutatis mutandis, mutati i valori che sono un pretesto per quella destra e quella sinistra. Populismo è il contenitore comune, in cui è ospitato l’antieuropeismo d’accatto, l’enfasi contro la casta politica che dimentica la sostanza del privilegio diffuso, la pretesa congiura giudaica-massonica, l’invenzione del capro espiatorio Banca-Finanza-Equitalia che assolve i parassiti produttivi (???), Agnelli, Berlusconi, Briatore, etc.. Politicamente –io credo – il contenitore è più importante dei diversi valori presi a pretesto. Il contenitore cioè è il vero valore. Perciò, ovviamente, consento con l’iniziativa di Monti di qualche tempo fa per un vertice sul populismo, avversario della politica tout court (di destra e di sinistra). Anche per me che credo di stare con la sinistra “vera” il populismo è il primo avversario. Perché sostituisce la rabbia impotente alla fatica della progettazione di una società giusta, ecocompatibile, rispettosa del futuro delle nuove generazioni. Però so bene che questa mia sinistra che guarda, capisce ed aspetta non è amata dagli altri. Non è amata dai disperati che – se proprio debbono morire – ritengono di farlo dopo aver affrontato e aggredito un nemico visibile, qui ed ora. Non sto citando il centro perché grosso modo lo assimilo alla destra pulita e ragionevole (e classista) che oggi guarda a Monti. Noi, la sinistra borghese dei professionisti colti, dei lavoratori e dei pensionati sostanzialmente garantiti, abbiamo salutato l’avvento di Monti come una liberazione. Non credevamo che avrebbe riformato chissà che. Nulla che facesse troppo male a qualcuno. Nessuna epocale riforma della scuola nel segno dell’apprendimento permanente ovvero del mandiamo tutti a scuola ad imparare a comprendere un testo o a comprendere i saperi chimici e fisici sottesi alle energie rinnovabili o a comprendere con strumenti matematico-statistici l’imbroglio del super enalotto e del gratta e vinci o a comprendere i meccanismi e la ratio della legge, dell’economia e della politica. Non pensavamo che Monti avrebbe garantito l’effettivo diritto al lavoro per tutti e neanche per un maggior numero di cittadini forse. Non pensavamo che ci avrebbe messo all’opera per mettere in sicurezza e ripulire l’Italia: monumenti, paesaggio, colline, città. Non pensavamo che avrebbe reso più progressive le imposte o che avrebbe introdotto una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Queste cose appartengono alla sinistra, no? Ai politici di sinistra, ai tecnici di sinistra, alla gente di sinistra. Con Monti ci siamo accontentati di salvare la barca comune che rischiava di andare a fondo col suo carico così composito di benestanti, ceto medio e disperati variamente invisibili. Con Monti ci siamo accontentati di recuperare un nuovo spettacolo della politica fatto di sobrietà, humor inglese, compostezza. Uno show in cui – addirittura – si aspetta che l’avversario concluda il suo intervento prima di prendere la parola. Da Monti abbiamo avuto il rigore che non sapevamo/potevamo imporre (perché elettoralmente impraticabile) ai ceti che rappresentiamo. Abbiamo avuto la generalizzazione del sistema contributivo (vittime della scure poche centinaia di migliaia di esodati, dimenticati), senza flessibilità, e il blocco delle indicizzazioni. Abbiamo avuto una riforma dei meccanismi di accesso e uscita riguardo il lavoro, farraginosa, compromissoria e pasticciata. Non abbiamo avuto l’equità. Non potevamo chiederla al governo dei tecnici. In fondo non eravamo così certi di poterla realizzare noi stessi. Troppo difficile colpire privilegi e capitali pronti a fuggire verso i lidi più accoglienti moltiplicati dalla globalizzazione. E - appunto – ci avremmo pensato noi. Il più tardi possibile. Perché non c’è fretta ad assumere compiti così difficili. Neanche nella declinazione, prudentissima, bersaniana (un po’ di crescita, un po’ di salario, un po’ di domanda, un po’ di consumi, un po’ di lavoro). Un po’. Per qualcuno. Puntando a migliorare indici e statistiche del Pil , della disoccupazione, di quella femminile e di quella giovanile. Sapendo che ci saranno comunque clochard e disoccupati di cui si occuperà la Caritas e ci saranno pensionati a frugare fra gli avanzi del mercato o a contendersi coi rom, fra i cassonetti, i rifiuti della società opulenta che impreca alla crisi. Ce ne saranno di meno. Saremo contenti se quei numeri cambieranno. L’economia farà un balzo in avanti. E tutti saremo contenti come se l’economia fosse il bambino che prende sicurezza e impara a camminare e poi a correre. Ma il bambino, quello vero, non è l’economia. E’ il bambino che intravvedevo ieri accucciato per terra, esposto al freddo dal padre mendicante per indurre all’elemosina. E’ il bambino che gioca fra i veleni di Taranto. La sinistra riformista guarda alla gradualità e ai numeri. Guarda all’economia e a migliorare i numeri. Che poi peggioreranno di nuovo e ci sarà un nuovo Monti. Ma sempre ci sarà un bambino al gelo o fra i veleni di Taranto. In attesa di una sinistra che consideri scandalo abbandonare chiunque. Anche un solo bambino. Una sinistra che abbia l’ambizione di non separare valori irrinunciabili quali il lavoro e la salute, l’efficienza e l’equità. Comunque grazie a Monti davvero. Il suo governo ha garantito il nucleo duro delle mie garanzie, mi ha colpito con sobrietà. Mi ha liberato – forse per sempre -dello spettacolo osceno di un pover’uomo solo al comando con codazzo di gente senza stima di sé. Per me va bene così. In attesa che il mondo si fermi considerando intollerabile un solo bambino al gelo, un solo pensionato che frughi fra le immondizie. E si rimuova per sempre lo scandalo. P.S. Né il bimbo né il pensionato si sono accorti della transizione da Berlusconi a Monti. E non riescono a gioire per i sondaggi elettorali che ci danno vincenti.

martedì 4 dicembre 2012

Come giudichiamo


Sulla panchina di fronte a casa un ragazzone piange con la testa fra le mani. In piedi una donna inveisce contro un uomo, paonazza in volto: “Non si permetta di toccare con un dito mio figlio…”. E lui, non intimorito, formale, replica qualcosa che non sento. Lei la madre, lui un poliziotto, un agente, è chiaro. Comincio a interpretare la scena sulla base dei miei pre-giudizi. A comporre un quadro verosimile. Non c’è segno di incidenti di auto. Sono pressoché certo che il ragazzone ha preso una multa parcheggiando, come molti fanno, dietro il bidone dei rifiuti. Lui, che immagino un ragazzo spavaldo e gradasso fra gli amici, adesso è disperato perché la madre dovrà pagare la multa. E, col pianto, un po’ si ripara dalla collera materna. Un bamboccione. O forse lei è una madre di quelle che difendono i figli o la memoria dei figli morti, vittime della violenza cieca e sadica delle forze dell’ordine, come la madre di Aldovrandi? Insomma, che diavolo avrà fatto quell’agente al ragazzone che piange? Oscillo fra la versione “bamboccione” e la versione “vittima del sadismo di poliziotti”. E non mi decido a varcare il cancello di casa. Poi mi accorgo di lei, appartata, una giovane carabiniera, pulita e bella come le donne in divisa. Scrive qualcosa. Un verbale. Tranquilla. La sua tranquillità mi tranquillizza. Ho la certezza assoluta che non può aver assistito a nessun gesto di violenza o di arbitrio. Credo in lei. P.S.Per questo ho votato Laura Puppato? Un tantino sì.

mercoledì 28 novembre 2012

E l'Ilva è dei Riva?

I lavoratori sfortunati e combattivi dell'Ilva di Taranto ieri manifestavano davanti alla Direzione. "I padroni dell'azienda siamo noi" era lo slogan urlato. Forse non è vero. Non è vero giuridicamente. E l'Ilva non è solo di chi oggi ci lavora. E' un po' della città che la ospita e paga un prezzo continuo di vite. Ma certo è difficile dire e pensare veramente: "E' dei Riva. E' dei criminali arrestati o latitanti". Quale insopportabile contraddizione fra quello che è vero giuridicamene e quello che sentiamo vero. Bisogno di socialismo o cosa?

lunedì 5 novembre 2012

Di chi è la Fiat?


Ancora su Fiat e Marchionne, per andare oltre. Può lasciarci indifferenti il comunicato Fiat riguardo i 19 licenziati di cui la magistratura ha imposto il rientro? Nel comunicato,poi ritirato ed emendato, praticamente si chiede esplicitamente a chi lavora in Fiat di condividerne progetti e anima. Non basta, no, far bene il proprio lavoro. Bisogna proprio amare l'azienda. Non so, ma credo che neanche ai tempi di Valletta si avrebbe avuto il coraggio di tali affermazioni. Mi è venuto di pensare alla mia personale esperienza di operatore nel sistema della formazione professionale. Mi è capitato molte volte - anche in pubblici convegni - di criticare aspramente i presupposti, gli obiettivi e i metodi del sistema e del centro in cui lavoravo. Ciò non mi ha mai impedito di svolgere con impegno il mio lavoro. Al più la critica era per me il presupposto per suggerire nuovi metodi e obiettivi, in parte realizzati nel mio centro e per i quali sono stato addirittura promosso. Con Marchionne sarei stato licenziato? Naturalmente se la Fiat fosse una cooperativa, se i lavoratori ne fossero soci e fossero chiamati a determinarne le scelte, beh, avrebbe qualche senso quel comunicato (emesso eventualmente dall'assemblea dei soci). La Fiat è degli Agnelli, degli azionisti e di Marchionne o dei lavoratori e degli italiani che ne hanno permesso l'esistenza e la redditività? Noi sentiamo - vero? - che c'è una verità e una proprietà giuridica, contrapposta a una verità e ad una proprietà percepita. Il comunicato Fiat (ritirato) mette i piedi nel piatto di tale contraddizione.

giovedì 1 novembre 2012

Fiat e licenziamenti: la verità di Alba Parietti


La Corte di Assisi di Roma ha imposto il reintegro dei 19 lavoratori di Pomigliano, rei per la Fiat di militare nella Fiom. Ovviamente la Fiat non si è espressa proprio così. Contabilmente è vero che se i 19 si aggiungono ai 2100 (o qualcosa di simile) che rappresentano l'organico necessario secondo l'azienda, altri 19 dovranno uscire. L'azienda non può sopportare un sovraccarico di forza lavoro pari circa all'1%. In altri tempi e in altri climi un esubero così risibile sarebbe stato gestito diversamente. Dolcemente, con rallentamento del turn over, ad esempio. Ma oggi l'esigenza di Marchionne è diversa. Lui vuole che la violenza sia visibile. Sia chiaro che ogniqualvolta vincerete, ogniqualvolta la magistratura vi darà ragione, scatenerò un inferno tale che non vorrete più vincere. Sindacato contro sindacato, lavoratori entranti contro lavoratori uscenti. E allora, si può aprire il dibattito che si vuole: sul diritto, sulle politiche industriali, sulla Fiom estremista o sulla Cisl collaborazionista. Però, io, più attento alla verità delle emozioni, e un po' superficiale (programmaticamente superficiale) sui numeri e le norme, la verità l'ho sentita oggi da una persona che ritengo sottovalutata. Una persona che non mi ha mai attirato né come donna di spettacolo né come donna avvenente: Alba Parietti. Con la passione che le è propria quando affronta le dimensioni del sociale e del politico, oggi, nella composta trasmissione di Cristina Parodi, gridava: "E' come la decimazione praticata dai nazisti!". E se ne infischiava dei distinguo di Cecchi Paone, suo interlocutore. Perché i distinguo si fanno dopo. Prima si sceglie con chi stare.

mercoledì 10 ottobre 2012

La Firenze di Marchionne


L'ultima di Marchionne è proprio inaccettabile. Firenze, la città di Renzi, è "una città piccola e povera". Inaccettabile che il manager più pagato in Italia si possa dimostrare impunemente tanto ignorante, conservando prevedibilmente i suoi privilegi. Inaccettabile la spocchia. Inaccettabile che resti in Italia piuttosto che scegliere la grandezza e la ricchezza di Detroit. Inaccettabile che gli Agnelli, cultori di sci e di vela (Della Valle) non abbiano nulla da dire. Cosa abbiamo fatto per meritare questo?

martedì 18 settembre 2012

Sarei promosso in quinta elementare?


Ho avuto il compito di assistere mio nipote nel completare i compiti delle vacanze. Mio nipote sta iniziando ora la quinta elementare. Io, bene o male, ho una laurea col massimo dei voti. Con mio nipote è stata una bella occasione per una presa di coscienza dei miei saperi. Non la faccio lunga. In italiano dovrei cavarmela. Dovrei. Ma una cosa è usare le preposizioni articolate, un’altra sapere che si chiamano così: “preposizioni articolate”. Egualmente, per la matematica, una cosa è applicare nei conti le proprietà delle quattro operazioni, un’altra sapere che si chiamo proprietà associativa, dissociativa, commutativa, etc. Ma la tragedia è con la geografia e con i laghi. L’esercizio chiede di ricordare i laghi italiani e di classificarli, uno per uno uno, nelle categorie: laghi tettonici, vulcanici, glaciali e non so quali altre. Mio nipote ha dimenticato il libro a casa. E’ una tragedia. Se poi il collegamento internet si imballa è un disastro. Così sono sicuro: non sarei stato promosso in quinta elementare. E poi qualche minuta osservazione. A suo tempo fui promosso. Come ho utilizzato i 60 anni successivi? A dimenticare quello che avevo appreso. Seconda osservazione. Delle due una. O mi insegnarono cose di cui potevo tranquillamente fare a meno, sottraendo tempo ai miei giochi. Oppure ho pagato nella mia vita, senza accorgermene, l’ignoranza sopravvenuta. E in questo secondo caso è ragionevole che lo Stato mi obblighi a studiare fino a 16 anni, disinteressandosi dopo della persistenza dei miei apprendimenti? Non sarebbe più sensato selezionare meglio i saperi (e i saper fare) e poi svilupparli e farne manutenzione lungo tutto l’arco della vita? Sì, mi sono convinto che dovremmo periodicamente replicare gli esami, non solo quelli della scuola dell’obbligo: la laurea, le specializzazioni, le abilitazioni, la patente dell’auto, quella di genitore e nonno, quella di cittadino. Dopo (o insieme) all'effettività del diritto al lavoro per tutti, l'effettività degli apprendimenti per tutti e per tutta la vita, rappresenterebbe il segno di un mutamento totale, quello che aspetto.

martedì 4 settembre 2012

Quelli di Alcoa e di Sulcis e quelli invisibili


I lavoratori di Alcoa che marciano su Roma. I minatori della Sulcis che si autosequestrano sottoterra circondati di esplosivo, ricatto non nominato contro la violenza del mercato che non si chiama violenza. Centinaia di lavoratori in lotta per la difesa del posto di lavoro. Loro quelli più combattivi e più fantasiosi, loro i gruppi più numerosi, loro quelli di cui si parla. Ma i tavoli della crisi sono centinaia. I lavoratori che mensilmente perdono il lavoro migliaia. Quelli che rischiano di perderlo decine, centinaia di migliaia, quelli che lo hanno perso milioni. Più numerosi ancora quelli che hanno smesso di cercare lavoro e non chiedono più nulla. Prima di continuare dico subito che tutti potrebbero e dovrebbero essere salvati o recuperati a un lavoro e un progetto. Però mi si dice che tutti non si può. Cominciamo con quelli che non si può. Non si può (non conviene) dare un lavoro a chi non lo ha mai avuto o lo ha perso da un pezzo. Fra tante emergenze loro non sono una emergenza. Non chiedono niente allo Stato. Sono donne tornate a casa ad occuparsi di bambini e genitori anziani. Sono giovani fuggiti all’estero. Sono uomini e donne che tirano a campare con un lavoretto in nero o delinquendo o chiedendo un reddito alle cosche. Queta non movere. Non sono un problema di ordine pubblico. Non si può dare un lavoro ai lavoratori licenziati dalle piccole e medie imprese in crisi. Alla commessa licenziata dal negozio che vede dimezzati gli acquisti di coca cola, patatine fritte o bermuda. Al manovale licenziato dall’impresa edile che non trova più nessuno e niente per cui cementificare. Sì, beh, si potrebbero pagare i crediti contratti verso la pubblica amministrazione. Vedremo di pagare qualcosa. Si salveranno mille. E gli altri centomila? Pazienza. Così per i precari storici e invecchiati della scuola o per i giovani laureati che vorrebbero insegnare. Chi scegliere? Facciamo metà e metà. Geniale! Sì certo si può fare un po’ di ammuina, spostare di qua, rinviare questo o quello promesso o deciso. Tanto chi se lo ricorda? Si potrebbe rilanciare la liberalizzazione berlusconiana delle ristrutturazioni: un piano in più qua, un garage là. Tanto il prezzo dell’Italia insicura e imbruttita lo pagheranno le future generazioni. Ma ci sono quei rompiscatole degli ecologisti e c’è il professor Settis e gente come lui, intellettuali che nulla sanno di economia e strepitano e lanciano il discredito sul paese se crolla un muro sul Pincio o qualche rudere a Pompei. Insomma praticamente non si può far nulla. Si può aspettare che la ruota misteriosa dell’economia giri. E intanto mettere in moto per quel che si può (se si può) il motore macroeconomico, quello che iniettando denaro salverebbe mille o un milione di posti, rigorosamente anonimi, perché la macroeconomia non conosce curricula e carte di identità, se non all’ingrosso. Sì, però salterebbero i conti, l’Europa e i mercati ci punirebbero. Allora facciamo finta di sapere come fare. Questi soldi li togliamo per mettere a posto i conti, poi li restituiamo per il capitolo sviluppo. Lo sviluppo è una cosa così. Di che parliamo domani in Consiglio dei ministri? Parliamo di pensioni? Parliamo di diritti civili? No, quelli il mese prossimo, domani parliamo di sviluppo. Domani risolveremo il problema dello sviluppo. Quello che non abbiamo risolto in quest’ultimo anno perché c’erano altre priorità. Quello che non abbiamo risolto negli ultimi decenni con lo stop and go della macroecomonia e con i provvedimenti per la Fiat. Già quanta saggezza in Giuseppe Bortolussi (CNA di Mestre) che diceva: "Vi siete chiesti quanti manutentori meccanici hanno perso il lavoro per le rottamazioni che salvavano posti di lavoro in Fiat?" Già, gli invisibili. Intanto risolviamo il problema dei minatori, quello più esplosivo (metaforicamente e no). Facciamo finta di aver realizzato la quadratura del cerchio, che ciò che era fuori mercato ridiventi competitivo - oplà, come in un gioco di prestigio – nascondendo come si può il costo attribuito allo Stato. Perché altro non si può. Non si può con queste regole. La verità dell’economia reale tace. L’evidenza direbbe che i bisogni umani sono sterminati. Che si potrebbe/dovrebbe armare di zappa o computer l’esercito di inoccupati, prendendo le risorse dove sono disponibili, abbondanti e sterili (rendite, evasione, ricchezze spropositate). E che se – per assurdo -non ci si riuscisse, pur volendolo, bisognerebbe chiedere a padri e nonni di consegnare l’equivalente delle sterili paghette per acquistare zappe e computer per figli e nipoti. Sembra evidente e razionale. Ma gli invisibili tacciono e non chiedono niente. E noi chiamiamo l’assurdo “realismo”.

giovedì 30 agosto 2012

Qualche volta le donne non mi piacciono


Sono seduto in piazza con la mia coppa di gelato ad ascoltare Zampaglione, ex dei Tiromancino, di cui praticamente non so niente. Bella voce probabilmente, ma non è il mio genere. E poi l'audio è così così . E davanti a me c'è lui il vero protagonista della mia serata, un tale seduto con tre donne. Prima che inizi a cantare Zampaglione, faccio in tempo ad apprendere che il tale è divorziato e generosissimo con il nuovo compagno della moglie. Poi inizia il concerto che un po' disturba la narrazione delle gesta del mio vicino. Comunque inarrestabile. Non prende fiato se non per accendere l'ennesima sigaretta e gesticola, gesticola, narrando di una storia dopo l'altra (storia, nel senso di avventura erotica). E le tre donne? Una forse è la sua fidanzata, visto come la stropiccia. Ma le altre? E tutte tre perché diavolo ci stanno ad ascoltare, sorridendo, annuendo, senza dir parola? Per una granita? Sì le donne non sono tutte Rita Montalcini o Margherita Hack e neanch'io sono Veronesi. Ma a questo punto, no! Poi, quando Zampaglione scende dal palco è tutta una corsa di ragazze per l'autografo e - le più "fortunate" - per una foto. Va bene, normale. Ma lascio la piazza con una nuova determinazione a proporre alle mie nipotine la pedagogia dell'autonomia e dell'autostima.

venerdì 24 agosto 2012

Quelli che leggono Libero


La peggiore del mese per me è quella di Libero del 13 agosto. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva. In un rigo solo: maschilismo becero, livore anti-legalità, la difesa della salute come vezzo dei radical chic indifferenti al lavoro della gente comune. Complimenti! C'è da mettere le mani fra i capelli pensando che milioni di italiani leggono e apprezzano Libero e hanno qualcosa di simile a un orgasmo leggendo queste porcherie. Dove sono questi italiani? Prendono il sole accanto a me in spiaggia? Sono al banco del bar accanto a me a sorseggiare un caffè?

La cugina del giudice


Non ci sono altri clienti in farmacia. La farmacista prende in mano la mia carta sanitaria e fa un cenno alla mia origine siciliana. Lei è di Canicattì, molto lontano dalla mia Siracusa. Parliamo di cannoli, di dove trovarli a Ostia o a Roma, somiglianti agli originali. Discutiamo anche della differenza fra cannoli dell'est e dell'ovest. Insomma le solite cose di cui parlano due siciliani che si incontrano. Dico qualcosa di Canicattì. Ne ho un pessimo ricordo, per quel poco che l'ho vista, come di una città urbanisticamente sconvolta, senza forma. Ma questo non lo dico alla farmacista. Dico solo qualcosa sulla mafia locale, particolarmente feroce: la Stidda, costola scissionista di Cosa nostra. Arrivano clienti. D'impulso faccio il nome di Cesare Livatino, il giudice ragazzino, massacrato il 21 settembre del '90 sulla strada che dalla sua Canicattì lo portava al tribunale di Agrigento dove prestava servizio. Lei ha un sobbalzo: "Era mio cugino - dice - cugino di mia madre". I clienti aspettano. Ma non sembrano disturbati. Ascoltano. E la farmacista continua. Dice di quel parente "ragazzino" così studioso, dalla carriera scolastica, universitaria e professionale brillantissima e veloce. Dice del suo impegno militante anche nella fede. Sì, ne so qualcosa. L’essere “laico”non mi impedisce di apprezzarlo. Mi chiede se so che è in corso una causa di beatificazione. Lo so. Fu avviata dopo che Giovanni Paolo II ebbe a chiamarlo "martire della giustizia e quindi della fede". Mi chiede se so della piazza intitolata a Roma in onore del giudice. Non lo sapevo. Vivo da poco tempo a Roma, mi scuso. Ci andrò. Mi chiede se ho visto il film a lui dedicato. L'ho visto. Non ho mai letto il libro di Nando Dalla Chiesa invece, intitolato al “giudice ragazzino”. Commento il significato sprezzante che aveva l'aggettivo "ragazzino" in Cossiga che lo pronunciò, anche se poi negò di averlo attribuito a Livatino. Parlava in Cossiga la cattiva politica di quelli che conoscono il mondo com'è -dei compromessi e delle trattative - e non hanno sentore di un mondo diverso. Vado via, salutando la farmacista e scansando la fila in attesa. Perché ho raccontato questo incontro? Probabilmente per i sensi di colpa che tormentano i siciliani che, pur ostili alla mafia, si sentono colpevoli di non essersi spesi abbastanza. Che hanno vissuto in una terra di troppi eroi e troppi martiri, grazie ai quali però è ancora pensabile di vivere in Sicilia. Forse anche per altro. Non è giusto sentirsi colpevoli per aver criticato un assassinato. Anche ai martiri in vita capita di aver torto. Ma se ci facciamo beffa dell’impegno è diverso. Molto diverso. Quando lo facciamo, ricordiamo i rischi di doverci pentire dopo e di detestarci, ad assassinio consumato.

venerdì 27 luglio 2012

I morti come clave

No, non mi è piaciuto il comunicato di condoglianze del nostro Presidente in occasione dell’improvvisa scomparsa del consigliere D’Ambrosio. Non mi è piaciuto che sia stato connotato da risentimenti e contestazioni verso chi aveva contestato lo stile del consigliere intercettato con Mancino implorante aiuto. Ho seguito, formulando nella mia testa giudizi prudenti sul significato dell’iniziativa di Napolitano, il ricorso del Presidente a un giudizio di legittimità in materia di intercettazioni che lo hanno riguardato. Ho voluto credere alla sua buona fede. Riguardo D’Ambrosio non ho elementi per contestare il valore dell’uomo, certificato dal suo curriculum. Però.. Però mi è apparso non apprezzabile la disponibilità del magistrato verso le lagnanze dell’ex ministro dell’Interno. Mi mancava, come a tutti, tranne che agli inquirenti, il tono del dialogo, tante volte più significativo delle parole. Il tono poteva essere di annoiata condiscendenza, come spesso verso i postulanti o magari di attiva condiscendenza. Ho pensato che con Mancino D’Ambrosio, intercedente, e forse lo stesso Napolitano potessero avere avuto quell’atteggiamento – come dire ? – vanitoso del potente cui viene chiesto aiuto. “Ci penso io”, “Vediamo cosa si può fare”. Il normale atteggiamento, nazionale, forse non solo nazionale, del potente corteggiato. L’atteggiamento che il ventennio del “ghe pensi mi” ha ulteriormente legittimato. Nondimeno il comunicato di Napolitano dopo l’improvvisa morte per infarto del suo consigliere è un’altra cosa. E’ possibile, certo, che gli attacchi subiti siano stati determinanti e fatali per un cuore malato. Così come è possibile che il no di una banca sia determinante nel suicidio di un imprenditore. O che lo stress dei ritmi della fabbrica sia determinante nell’incidente d’auto mortale di un operaio uscito dal lavoro. O forse erano determinanti le litigate con la moglie? Diciamo che tutti gli italiani corrono rischi nel lavoro e nella vita di ogni giorno. E producono rischi agli altri. Non può essere la morte il giudice. La morte non fa eventualmente giusto l’ingiusto. Lo rende solo meritevole di compassione. Napolitano – purtroppo- mi ha fatto pensare all’orrida strumentalizzazione della destra berlusconiana (non a caso accorsa in difesa del Presidente). Mi ha fatto pensare in particolare a quel tale ministro del welfare, di nome Sacconi, vero campione della strumentalizzazione della morte. Ricordate? In tempi non lontani, quando cominciava a entrare in crisi l’apparato ideologico della riforma berlusconiana del mercato del lavoro, l’assassinio di Biagi era l’unico argomento di Sacconi. Si presentavano al ministro dati drammatici sull’incremento del precariato. La sinistra per inciso cercava di distinguere Biagi e il suo Libro bianco dalla riforma del centrodestra che si diceva ispirata al Libro bianco del giuslavorista assassinato. Erano sempre prudenti, sulla difensiva, allora gli interlocutori di Sacconi nei tanti talk show in cui si replicò il copione. Alla prima osservazione, alle odiose statistiche Sacconi, paonazzo replicava: “vergona, non avete rispetto neanche per i morti”, con poche variazioni sul tema. Oggi, per riferire solo una voce dal centrodestra, quella dell’esponente più sgradevole di tutti, la caricatura di Crudelia De Mon, dobbiamo leggere “I pm hanno fatto un altro morto. Fermiamoli!". Napolitano non ha detto così. Ma, Presidente, non avrei mai pensato che potesse sfiorarmi il pensiero di paragonarla a Sacconi e Santanché. Mi dispiace.

venerdì 13 luglio 2012

Ortografia, sintassi e democrazia


Una volta nel linguaggio scritto erano considerate inaccettabili imperfezioni, errori ortografici, sgrammaticature, cose del tutto accettate nel linguaggio parlato. Questo inibiva i meno colti nell’uso della scrittura. Diciamo che era un limite all’espressione del pensiero e alla democrazia. Mi pare che tali timidezze siano superate. Oggi l’ortografia dei messaggi murali somiglia assolutamente a quella delle lettere di una volta alla fidanzatina di campagna o agli sms. Ho letto sui muri di Ostia un manifesto e un titolo che solo per un attimo mi ha procurato un soprassalto. Poi ho fatto spallucce. Il manifesto era intitolato PRESIDIO DI MANIFESTAZIONE DI DISSENZO. Il presidio era minacciato per lo scorso 11 luglio davanti a Montecitorio da una sedicente legaitalica Ho scoperto vivendo da poco nel territorio romano quanto normalmente la Z prenda il posto della S. Non molto tempo fa scoprii l’insegna di un negozio che impavidamente pubblicizzava BORZE. Poiché non sono un purista e poiché voglio essere un democratico, ho polemizzato un tantino con mia moglie che continuava ad arricciare il naso davanti al manifesto. Al di là della Z il problema era invece a mio avviso nel testo. Era una violentissima quanto assolutamente vaga invettiva contro il governo delle tre banche (non chiedetemi quali siano), contro le tasse ingiuste (senza dettaglio alcuno) e contro l’immancabile Equitalia che pare avere preso il posto degli immigrati. Mi venga un colpo ma, mentre capivo benissimo che dissenzo significa dissenso, nulla ho capito della proposta politica. Non era comprensibile per l’incerta sintassi o viceversa la carenza di proposta partoriva quella sintassi? Certo la grafica e i colori, decisi non so come, non aiutavano. L’indomani in ospedale mia moglie ed io sentiamo gli stessi suoni ma è come se sentissimo sintassi e toni diversi. C’è un giovane medico, forse uno specializzando, che così si rivolge in corridoio a un paziente, indicandogli, col braccio, una direzione: “mi segue…”. Mia moglie mi sussurra: ”anche i medici…”. Io faccio il finto tonto perché non sono sicuro di aver ascoltato quello che lei ha inteso. E lei, paziente, chiarisce: ha detto “mi segue”; come è possibile che un medico non sappia che avrebbe dovuto usare l’imperativo e dire “mi segua”? Mia moglie non è particolarmente cattiva ma io evidentemente sono un buonista, un avvocato del diavolo che troverebbe attenuanti al peggiore assassino. Infatti dico: forse c’era un punto interrogativo, forse ha chiesto “mi segue?” Non è che non sapeva usare l’imperativo, non voleva usarlo per una forma di cortesia. Come se avesse detto: le dispiace seguirmi? Oppure usava una forma inusuale di indicativo, descrittivo, come se descrivesse il futuro prossimo: io vado avanti e lei mi segue. Non sta comandando niente, sta descrivendo quello che sta per succedere, con lui avanti e il paziente dietro. Poi, a casa, mi chiedo, quando e quanto ci serva il purismo. La difesa delle regole e della legalità è in qualche rapporto con il purismo e l’intransigenza ortografica o con la sintassi? Possiamo liberalizzare ortografia e sintassi in nome della democrazia e insieme insegnare ai cittadini, analfabeti di ritorno, la sintassi appropriata e soprattutto il suo scopo? E dove dovremmo farlo, nelle inesistenti istituzioni di educazione degli adulti? E, riguardo il medico, ci servirà trovare scuse a attenuanti per capire le ragioni dello scempio dell’ultimo ventennio e non perdere contatto con gli italiani innamorati di quello scempio? O forse la “comprensione” inevitabilmente raffredda la nostra rabbia e la nostra reazione?

mercoledì 11 luglio 2012

Se Squinzi irrita lo spread

Squinzi parla di macelleria sociale e Monti replica che così il presidente di Confindustria fa salire lo spread. Non sono sicuro di sapere chi abbia ragione. Non so soprattutto se lo spread sia così “delicato” e sensibile da impennarsi per ogni opinione espressa. Ma francamente il mio timore è che Monti possa avere ragione. Mi chiedo però: a cosa è servita la decennale polemica democratica contro l’uso disinvolto dell’argomento “disfattismo” per mettere a tacere gli oppositori? Ho dato un’occhiata ai repertori storici dalla prima guerra mondiale al fascismo e ai dati dei condannati, penalmente o solo moralmente, colpevoli di avere indebolito le difese nazionali davanti al nemico. Ho ricordato le polemiche frequenti dell’ultimo governo contro l’opposizione (anti-italiana, anti-patriottica si sarebbe detto nel ventennio) che suggeriva un copione ostile alla stampa straniera. Ho scoperto poi che il nostro codice penale prevede il reato di disfattismo – anche economico – sia pur solo in tempo di guerra. L’Unità ha avuto un titolo efficace e ironico: “Taci, lo spread ti ascolta”. L’ironia però non serve che a esorcizzare il problema. Se convenissimo che una dichiarazione più o meno autorevole irrita lo spread assai più delle chiacchere da bar degli innocui cittadini, che faremmo? Daremmo ragione a Mussolini? Sposeremmo le ragioni dell’autoritarismo? Penso che noi ci illudiamo di poter conciliare le ragioni dell’economia con quelle della democrazia o almeno della libertà di espressione. Se non saggio, coraggioso sarebbe prendere atto del conflitto e scegliere: lo spread e l’economia o la democrazia. Io sceglierei la democrazia, scommettendo (sperando) che dalla democrazia discenda una nuova economia prima o dopo il disastro atteso. Perché questo avvenga servirebbe – credo – che le ragioni della democrazia sostanziale integrassero le garanzie della democrazia liberale. Questo vuol dire “semplicemente” che l’opinione di tale Squinzi pesi, conti, sia visibile e ascoltata come quella di tale Rossi e di tale Bianchi. Utopia? Sì, certo. Benaltrismo? No, per niente. Infatti senza remore, in attesa della democrazia impossibile (la libertà di tutti, scelgo la libertà di Squinzi.

venerdì 1 giugno 2012

L'epidemia della furbizia idiota


Il furto è cosa umana e “razionale”. L’omicidio lo è. Lo stupro lo è. Lo è l’evasione fiscale. E’ umano e “razionale” , per quanto odioso, che si soddisfino i propri bisogni – i primari e i secondari - facendo violenza ad altri, se diversamente non si sa fare. C’è nella violenza e nell’imbroglio una ragione, un calcolo o una ragionevole scommessa (di farla franca). Ma non è a questo – non solo a questo - che assistiamo oggi. Non è solo la violenza e il malaffare “razionale”. E’ “razionale”, oltre che drammatico, che un imprenditore chieda ai suoi operai di tornare al lavoro sotto le lamiere del capannone, finite, apparentemente, le scosse sismiche. I clienti premono e i fornitori aspettano di essere pagati. L’imprenditore non si perdonerebbe di aver compromesso, la propria famiglia e i propri dipendenti ( se è altruista) per un eccesso di cautela. Il suo concorrente fa del resto lo stesso calcolo: ognuno è carnefice potenziale dell’altro, come in quel gioco (dove l’ho visto?), quella tortura in cui due sono col cappio al collo e il movimento dell’uno strangola l’altro. Non è diverso per l’operaio che decide, dopo qualche titubanza, di tornare al lavoro. Sarebbe troppo rischioso se lui non lo facesse e lo facesse invece il compagno di lavoro. E non sempre, nelle piccole imprese, il sindacato è presente a garantire un patto di non concorrenza fra lavoratori. Dovrebbe/potrebbe inibire la concorrenza mortale lo Stato, l’arbitro portatore di interessi generali. Ma, al di là delle affermazioni di principio (la sicurezza, il valore della vita umana), non può farlo più di tanto. Non può imporre costruzioni più solide di tanto, né disporre degli ispettori che servirebbero e che costerebbero. Non può pregiudicare la competitività delle aziende e del sistema Italia, con lo spread incombente. Siamo in competizione con la Cina, che diamine! Va bene: sono tutti comportamenti razionali, quelli delle aziende, dei lavoratori dello Stato, degli Stati. Solo che non è razionale per niente il sistema che costringe gli attori ad impiccarsi reciprocamente con lucida razionalità. A questo ci eravamo abituati o rassegnati. Poi però – non sarà una fantasia, un fantasma immaginario? – oggi succede dell’altro ove non è possibile scorgere il segno di una razionalità qualsiasi. Politici affermati e benestanti, politici in carriera che potevano aspirare a tanto se non a tutto, i Penati, i Lusi, i Formigoni, i Bossi, etc., etc. si giocano tutto per un niente. Per la quarta casa, la seconda barca, l’undicesima amante, per sistemare un figlio impresentabile. Già: quello che avrebbe dovuto aver posto nella storia come il fondatore della Padania, avrà un posticino in una nota a piè di pagina come quello che pagava al figlio la paghetta e l’università facile con i soldi del partito (e dei contribuenti). Dov’è finita la ragione? E nel mondo degli affari? Stessa cosa. I Madoff si moltiplicano, pur con qualche specificità nazionale. In Italia con la certezza che non ci sarà accanimento e che in cella eventualmente si sarà chiamati “dottore”. In cella comunque. Forse potrà dire “Ne valeva la pena” un Fabrizio Corona. Lui senza intrallazzi e ricatti non sarebbe stato un divo, ma solo un normale play boy. No, quello a cavallo fra affari e politica (e calcio) non voglio nominarlo. Non nomino il massimo artefice del rimbecillimento nazionale. E poi il calcio. Anche qui nessuna sorpresa se a far intenzionalmente goal nella propria porta è un giocatore mediocre che in banca ha pochi spiccioli insufficienti a garantirgli l’avvio di un’attività, una rendita, un futuro. La scommessa illecita, il tradimento sono un prezzo ragionevole per sistemare il proprio futuro, almeno per chi non soffre di quelle inibizioni che chiamiamo “Etica”. Incomprensibile appare invece il calcolo del giocatore plurimilionario, membro della nazionale, fiero della bella moglie e fiero dell’ammirazione del pargoletto per il papà campione, il campione che pregiudica tutto per un milione in più, il ventunesimo o il centunesimo milione, dall’utilità marginale vicina allo zero. Credo che questo – la fenomenologia dei Bossi, dei Madoff, dei Criscito - sia più allarmante della lucida delinquenza calcolatrice. Che malattia è questa? Ne Il Gattopardo Tomasi di Lampedusa dice di un personaggio che “aveva quella furbizia che in Sicilia usurpa speso il nome di intelligenza”. Posto che quello che valeva per la Sicilia oggi vale per il paese intero, quella furbizia è fra i fattori scatenanti la malattia attuale. Non è la malattia attuale. La produttiva furbizia (pro domo sua, per definizione) del personaggio del Gattopardo, riguarda al più evasori o piccoli abusivi, non Formigoni, non Bossi, non Criscito o Buffon. Questi ultimi sono l’avanguardia di una epidemia di furbizia idiota che rischia davvero di metterci in ginocchio. Perché abbiamo strumenti per reprimere e dissuadere la normale furbizia “produttiva” e paradelinquenziale, non ne abbiamo per sconfiggere l’epidemia di furbizia idiota. Non è più un calcolo razionale, non è il bisogno di un bene, della casa per le vacanze o della cena nel ristorante prestigioso, che sono acquisiti. E’ il gusto malato di aggirare leggi, regolamenti, compiacendosi, dandosi di gomito, inebriandosi nel comprare l’assessore compiacente, nell’invenzione di schede telefoniche di comodo, di prestanomi per le scommesse, per poter dire del vicino, dello Stato: “L’ho fatto fesso”. Così il sistema, non solo ha prodotto la corda in cui lavoratori, imprenditori, Stati, reciprocamente si strangolano nella splendida competizione. Ha prodotto un virus che nell’Italia dei furbi, esaltata dalla pedagogia della seconda Repubblica, troppo facilmente ha attecchito. Sarà difficile produrre una pedagogia della cura di sé e del paese.

martedì 22 maggio 2012

Brindisi, il romanzo di una strage


L’ultimo scempio di umanità consumato a Brindisi mi ha riportato alla storia tragica delle stragi italiane e a un film visto da poco. Marco Tullio Giordana, col suo Romanzo di una strage, ha svolto un'opera meritoria. Ha raccontato ai giovani che non sapevano e agli adulti che avevano dimenticato cosa accadde a Milano quel 12 dicembre del '69. Ne ha raccontato il sangue e il dolore. Ne ha raccontato le vittime e i carnefici più o meno accertati. Con un po' di conformismo, ha preso atto delle parziali conclusioni attuali e della riconciliazione delle vedove, facendo degli antagonisti di allora, Pinelli e Calabresi, due avversari leali, diversamente schierati entrambi contro il male, l’anarchico testa calda, Valpreda, da un lato, la questura di Milano, complice o omertosa, dall'altro. Il resto però, il perché e il come, i mandanti, la catena delittuosa ha potuto solo ipotizzarlo, suggerirlo, se non inventarlo. Ha sceneggiato le ipotesi della cultura democratica e della teoria del complotto. Gli anarchici forse manovrati da servizi stranieri e da pezzi dello Stato, i fascisti infiltrati (Merlino) che si fingono anarchici, i milionari "radicali" (Feltrinelli) che vogliano altro che il denaro. E' vero, nella stagione delle stragi si è ipotizzato il concorso straniero: la Cia, il Kgb, addirittura entrambi, collaboranti. Per ottenere cosa? Per allontanare la sinistra dalle stanze del potere, evento sgradito perché "eversivo" dagli Usa, perché riformista e compromissorio per il Partito comunista sovietico. Però quello che gli uni e gli altri avrebbero tentato di impedire, anche con la complicità delle Br e il sequestro Moro, avvenne invece con l'ingresso del Pci nella maggioranza di solidarietà nazionale (1978). Una strategia fallita con ogni evidenza. Come per Piazza della Loggia, come per Bologna. Come oltre le nostre frontiere. Quale fu nel settembre 2001 la strategia di Osama bin Laden, con l’abbattimento delle Twin Towers? Seguì l’invasione dell’Afghanistan (stesso anno) e dell'Irag (2002) fino all’esecuzione dello stesso santone di Al Qaeda. Era questa la raffinata strategia di Osama? Era questo che voleva? Morire? E con l’attentato ai treni a Madrid (2004) si voleva quel che ci fu, la vittoria di Zapatero? La storia delle stragi “politiche” pare intrecciarsi talvolta in Italia alle stragi di mafia. Difficile contestare la contiguità fra mafia e politica (pezzi della politica) e probabile che servitori dello Stato siano finiti nel libro paga di Cosa nostra. In compenso la mafia, quella che uccise Falcone e Borsellino e poi congegnò gli attentati degli Uffizi, del Velabro, etc. è disintegrata. Rimane l’istituzione mafiosa, ma capi e gregari sono in galera. Il capo supremo, dopo Riina, il mandante degli assassini degli ultimi decenni, Bernardo Provenzano, malato e forse demente, è disperato al punto di tentare il suicidio infilando la testa in un sacchetto di plastica. Anche la libertà di morire gli è preclusa. E’ questo il premio atteso per una stagione di stragi? No, non voglio dire che non ci siano stati complotti. Ma insomma non con tanti eterogenei protagonisti alleati nell’arco di una e più generazioni. Sì, nella lunga lista di colpevoli e complici tratteggiata, Marco Tullio Giordana (come tutti i teorici del complotto politico) qualcosa avrà azzeccato. Il perché politico di tale mobilitazione di agenti del male però resta oscuro. Resta oscura la ratio politica perché a mio avviso, essa, quando è presente è spesso un pretesto, non negli "impiegati" dei servizi segreti quanto negli ideologi della violenza. I loro progetti quasi inevitabilmente falliranno. Vico e altri dopo di lui hanno parlato di eterogenesi dei fini. Gli effetti delle nostre azioni sono spesso opposti alle nostre azioni. Quanto più complessa è la realtà, per la molteplicità di azioni e retro-azioni, tanto più probabile è ottenere risultati opposti a quelli desiderati. Credo che noi mitizziamo le potenze occulte che manovrerebbero alle nostre spalle, sia quando ne ipotizziamo a sproposito l’esistenza sia quando le immaginiamo dotate di una straordinaria intelligenza. Credo che il dolore e il sangue di questi anni nascano dalla disperazione dei manovali delle stragi più che dalla presunta intelligenza di menti raffinate. Se cresce la disperazione, i sempre più numerosi disperati hanno sempre facilità a crearsi capi e santoni (cioè pretesti) e viceversa questi ultimi hanno facilità di trovarsi entusiasti assassini e kamikaze. E nel brodo di cultura del nichilismo anche i gesti isolati (il norvegese Breivik è solo l'ultimo) si moltiplicano. Il benessere, frutto del saccheggio delle ultime risorse della terra e quindi del futuro, ci ha regalato una società con tassi decrescenti della violenza primordiale e "razionale", quella di chi cerca cibo, sesso, denaro. Meno rapine, meno stupri. Crescente invece la violenza gratuita “ideologica”, quella che cerca bandiere e appartenenze, simboli da coltivare e simboli da abbattere, per riempire il vuoto di vita e progetti. In tal senso è possibile transitare dalle bandiere del tifo a quelle dei clan mafiosi a quelli politici delle estreme che offrono appartenenze e semplificazioni alla portata di tutti. Credendo questo, non mi interessa molto il chi e le cosiddette responsabilità che la giustizia talvolta riesce ad accertare. Mi interessa più il perché che però credo di conoscere. Non appartiene alla politica. La politica lo produsse e ne è prodotta: è la mutazione antropologica che fa scoprire all'uomo la sua solitudine. Per questo di Romanzo di una strage mi sono rimasti i pochi minuti di Moro (uno straordinario Fabrizio Gifuni) con la sua “confessione” all’amico prete. A fronte del male, delle omissioni colpevoli, delle stragi, un Moro sfinito confessa di arrivare ad auspicare che la natura prenda il sopravvento e cancelli quel progetto andato a male, l’Uomo, per poi ricominciare pian piano la sua opera rigeneratrice. Ecco, credo che lì nei guasti irredimibili denunciati da Moro ci sia il massimo di verità, quella che l'arte è capace di suggerire. Non sento come una contraddizione che quella verità mi stimoli a renderla falsa, a fare politica per cambiarmi e cambiarci.

sabato 19 maggio 2012

Mentana e il politicamente scorretto


Che c'è di peggio dello schierarsi coprendosi con una foglia di fico? Ieri Mentana si è prodotto in un esercizio di viltà assoluta. Commentava il film diffuso dalla 7 "Vi perdono ma inginocchiatevi". Protagoniste erano le donne degli uomini della scorta, a partire dalla giovane Rosaria Schifani che col grido urlato ai funerali nel duomo di Palermo ha ispirato il titolo del film. Ma di fatto il commento era un tentativo di riflessione sulla esperienza del giudice assassinato e sui suoi nemici. I nemici nelle istituzioni, oltre che gli uomini della mafia. Ora io penso semplicemente che non tutti gli avversari di Falcone fossero suoi nemici o vicini alla mafia. Il martirio non rende ipso facto detestabili quelli che furono avversari della vittima. Un pensiero semplice il mio, ma evidentemente controcorrente. Mentana, che non è un eroe, non ha fatto eccezione, facendo intravvedere garbatamente (?) una coalizione aggregatosi contro Falcone, dalla mafia, a uomini della polizia, della magistratura, della politica. Certo, sparando nel mucchio, si può colpire anche chi davvero fu complice della mafia. Peccato che si colpisca egualmente chi ebbe il torto di dissentire dal giudice e che, se avesse previsto la strage di Capaci, prudentemente magari sarebbe stato zitto. Poi l'esercizio spericolato di Mentana. Più o meno questo: "Fra gli avversari a Palermo anche politici attualmente impegnati e - non è corretto far nomi - anche impegnati nel prossimo turno di ballottaggio". Immagino che aver additato Orlando, senza farne il nome, bastasse secondo Mentana a coprirsi dall'accusa di faziosità. Io non dirò invece che il celebrato direttore del TG della 7 abbia voluto tirare la volata al competitore di Orlando a Palermo. Dico che ho assistito a una pessima prova di giornalismo. E metto le mani avanti: qualunque cosa succeda a Mentana, io non c'entro niente.

sabato 28 aprile 2012

Istat, disoccupati e inoccupati: perché non vediamo l'anomalia italiana?


Allora, l'Istat ha pubblicato, le rilevazioni relative al 2011 su disoccupati e inattivi. 2 milioni 108 mila sono i disoccupati 2 milioni 897 mila sono gli inattivi che non cercano un impiego ma sono disponibili a lavorare. Sono prevalentemente "scoraggiati", persone che ritengono inutile cercare attivamente un lavoro: letteralmente dis-perati, privi della speranza che è presente in chi cerca e in chi lotta per avere o mantenere un lavoro. In quanto a tasso di disoccupazione siamo in linea con l'Europa, anzi meglio, mi pare, rispetto alla media europea. Era un dato "sbandierato" dal precedente governo, senza ricevere repliche (tranne che per il dato pesante della disoccupazione giovanile). Rispetto alle forze di lavoro (chi lavora o potrebbe lavorare, se dico bene) gli inattivi rappresentano l'11, 6% , dato superiore di oltre tre volte a quello europeo (3,6%). Speriamo in un + 0,5 di Pil, quando speriamo (non ora, mentre speriamo solo in una recessione moderata) ), ma l'11,6% di inattivi non è potenzialmente un 11,6% di questo benedetto Pil? Grossolanità la mia, lo so. Magari, tenendo conto di questo e di quello, è "solo" un 5% di Pil. Ma non stiamo parlando di un ordine di grandezza incommensurabile con le piccole cose di cui più spesso parliamo? Ho pensato talvolta di non capire. Forse mi sfugge qualcosa, pensavo. Poi però capitava - qualche volta, non spesso- che una Chiara Saraceno o una Irene Tenagli evidenziassero l'anomalia italiana nei talk show televisivi. E allora mi dicevo: non ho le traveggole. Però - accidenti, ricordo benissimo -nessuno, nè condutore né ospite illustre, recepiva o replicava. Quindi resta la domanda: perché non ci interessa? La mia risposta, la mia ipotesi è che non ci interessa perché gli inattivi che non cercano un impiego ma sono disponibili a lavorare non rappresentano un problema di ordine pubblico o di ordine sociale. Non salgono sui tetti, non fanno picchetti, non incendiano e non si incendiano, non si suicidano. No - preciso - penso che si suicidano, ma il suicidio non è interpretato come suicidio per carenza di lavoro neanche da chi si dà la morte. Sarà attribuito a depressione o sarà attribuito all'ultima goccia che ha fatto traboccare il vaso: un litigio, un amore, etc. Se sopravvivono e non strepitano, se sopravvivono con la paghetta di genitori e nonni o con la generosità della Caritas, perché dovremmo porci un problema? L'infelicità muta, senza desideri, ci fa dormire sogni tranquilli. Forse solo evidenziando il maledetto Pil che perdiamo possiamo riscuotere attenzione al problema. Quindi lo faccio anch'io. Quanto perdiamo di Pil? http://www.istat.it/it/archivio/59542 http://www.corriere.it/economia/12_aprile_19/istat-lavoro-inattivi_...

giovedì 26 aprile 2012

La passione dei vecchi, la ricerca dei giovani e la stanchezza degli altri

Oggi siamo pochi a lezione di inglese nel circolo territoriale Pd di Ostia levante. Entra un signore anziano. Ha voglia di parlare e non sa cosa facciamo attorno a un tavolo né gli interessa. Quindi poggia fra i nostri libri e quaderni ritagli di giornali; c'è una pagina del Messaggero con l'hit parade dei miliardari italiani. C'è Ferrero in testa, non ricordo il secondo, un po' sotto Armani, ancor più giù Berllusconi, etc. L'anziano compagno (così si è qualificato intanto) è scatenato contro Monti che non tassa i patrimoni miliardari, si scandalizza che sia tassata sempre più la sua pensione di 1.500 euro; però lui è con Monti, dice (come diciamo tutti noi del PD). Insomma nessuno sa come dirgli che siamo lì per studiare e anch'io sono un po' contrariato o almeno annoiato a sentire discorsi giusti ma scontati. Poi va via e Simona, giovanissima democratica, ci dice qualcosa dell'anziano compagno. Benedetto (mi pare si chiama così) è un ex professore di latino e greco e soprattutto ha 97 anni. 97. Ora non mi interessa più l'inglese. L'irritazione è verso me stesso. Penso a me fra 20 anni e mi sento di escludere che, se sarò vivo, avrò voglia di ritagliare la pagina del Messaggero, contestare il governo tecnico di Fornero junior e tanto meno dibattere se si tratti di un governo tecnico o tecnico-politico o politico, malgrado le apparenze. Poi vado al cinema a vedere Diaz e mi accorgo di essere solo con quattro coppie di ragazzi attorno ai 20 anni. Non sono una comitiva. Ogni coppia sta su una fila diversa ed è lì per vedere il film, evidentemente per capire cosa accadde a Genova durante il G8 del 2001. Naturalmente mi avveleno lo spirito, rimuginando sull'antropologia dei poliziotti, sul gusto della mattanza, sulla poliziotta che non è più donna ma complice nella umiliazione dell'intimità della giovane arrestata. Anche se fosse successo la metà di quel che il film mostra, sarebbe troppo e intollerabile. E poi i titoli finali che ci ricordano che, per la prescrizione, nessuno pagherà e che nessuno è stato sospeso dal servizio. Così intossicato, solo vagamente consolato dal ricordo dell'anziano compagno che protesta e progetta e magari dalle quattro coppie di ventenni che vogliono sapere cosa accadde a Genova in quei giorni maledetti, sento che il sonno non arriva. Perciò mi confido nel web.

mercoledì 25 aprile 2012

La strage per rilanciare l'economia


Ieri, a Ballarò, Paolo Mieli, come se aprisse una innocente parentesi: "La recessione e la stagnazione verificatesi nella prima metà del secolo scorso furono superate grazie - è brutto dirlo - al secondo conflitto mondiale. La ricostruzione promosse nuove energie e sviluppo". Queste più o meno le sue parole. Ma perché "è brutto dirlo"? Il punto è se sia vero o falso. E perché nessuno dei partecipanti replica alcunché all'affermazione "provocatoria" di Mieli? Io direi che la diagnosi era corretta. "Quello" sviluppo fu possibile grazie alla carneficina e alle distruzioni immani della guerra. Egualmente molti parassiti si ingrassano e si moltiplicano grazie ai cadaveri: più cadaveri più vita. E allora quale ipocrita reticenza ci impedisce di auspicare un nuovo conflitto? Ah, le fabbriche aperte giorno e notte a produrre armi! Ah, la domanda di forza lavoro! Ah, i disoccupati, gli inoccupati "scoraggiati" finalmente al lavoro! Niente più suicidi di lavoratori e imprenditori! Solo qualche milione di assassinati, solo tonnellate di macerie e città distrutte che dovranno essere ricostruite. Una pacchia, oltre che per i fabbricanti d'armi, per medici, infermieri, industriali e artigiani di cofani funebri, becchini, ma anche i genere imprenditori e lavoratori. No, non si può dire, non si può auspicare. Si può dire solo dopo, a devastazione avvenuta: "Beh, tutto sommato quell'Hitler, sarà pure stato un criminale, però, senza volere, quanto bene ha fatto!". Non credo proprio di caricaturizzare l'affermazione di Mieli assolutamente condivisa da tanti storici ed economisti. Sola differenza: questi ultimi non ne parlano nei talk show; ne scrivono per pochi dotti lettori o ne parlano in dotti convegni, naturalmente senza nominare parole come "strage" o come "sangue". Si dice di "ricostruzione" conseguente a un evento; in tale "narrazione" la carne e la sofferenza non devono essere nominati. Certo si potrebbe citare il concetto vichiano di "eterogenesi dei fini". I risultati sono difformi e talvolta opposti rispetto all'intenzione degli uomini. Allora la tesi di Mieli può apparire innocente, come se dicesse: "è capitato che una intenzione malvagia, la distruzione e il sangue, senza che nessuno lo attendesse, producessero bene e sviluppo". Una mera costatazione da storico? Non credo, visto come di fatto è condivisa da tanti studiosi dell'economia oltre che storici, studiosi interessati a conoscere il dato per replicarlo, qualora sembrasse utile. Il significato inespribile per pudore è che quel massacro e il conseguente rilancio potremmo replicarlo, se volessimo. Nei secoli scorsi erano il bisogno, l'ambizione, la contesa, la follia a scatenare la guerra e, coerentemente con l'eterogenesi dei fini, benefici non programmati potevano verificarsi. "Graecia capta ferum vincitorem caepit" (I romani vollero conquistare la Grecia che li conquistò). I colonialisti invadevano territori africani e facevano strage di resistenti, a scopo di dominio e ricchezza. Il beneficio non programmato era lo sviluppo e la "civilizzazione" indotti in quelle terre che creavano le premesse per il mondo globalizzato. Ormai sappiamo e non possiamo fingere di non sapere. Domani potrebbero essere tutto programmato ed essere gli economisti a decidere una bella guerra, a tavolino. Non so se ai popoli sarà concesso saperlo. "Sapete? Abbiamo bisogno di rilanciare l'economia. Domani dichiariamo guerra alla Germania. La Merkel è d'accordo". Forse per un po' di tempo sarà necessario inventare una scusa, una provocazione, un conflitto ideale. Poi sarà tutto più limpido. Pensiamoci un po'. Come nella buona fantascienza, l'incubo futuro è già presente nella sua sostanza concettuale. La distruzione già oggi è intesa motore dell'economia. Il tabu è la guerra (quella fra occidentali almeno), non la devastazione ambientale che è comunque guerra all'uomo passando per la natura. In un paese in cui esistono milioni di case inutilizzate, il precedente capo del governo pensava di rilanciare l'economia consentendo l'apertura di un vano, un terrazzino, facendo incontrare i piccoli bisogni del cittadino, in conflitto naturale con i bisogni collettivi, con le ragioni dell'economia che pretende lo scempio perché sviluppo e occupazione siano. Per ragioni che non so pare invece che sia infantile, non scientifico, etc. pensare che gli uomini semplicemente decidano insieme se costruire o abbattere case (non con la guerra, ma con le ruspe, non per il bene dell'economia ma per quello degli uomini). Marx diceva che era questa la differenza fra l'uomo e l'ape: la volontà/capacità dell'uomo di progettare la sua opera. Ma Marx è superato. Sarà riscoperto fra qualche secolo. Insomma mi sarebbe piaciuto che qualcuno replicasse a Mieli. Mi piacerebbe che qualcuno mi convincesse che non c'è altra strada che la distruzione, per salvare l'economia, l'occupazione, la felicità degli uomini. Qualora riuscisse a convincermi, chiederei di scendere, sceglierei un altro pianeta dove vigano altre leggi economiche. .

domenica 1 aprile 2012

Sfregiare la bellezza per essere immortali

Nella scorsa fine settimana sono stato in gita fra i monti laziali e la valle dell'Aniene. Ho visitato fra l'altro il suggestivo monastero di San Benedetto a Subiaco. Non immaginavo tanta bellezza.Io,moglie e amici eravamo forse gli unici italiani, oltre ad una scolaresca, normalmente disattenta e vociante. La prevalenza era di stranieri e di cinesi in particolare (insomma credo fossero cinesi). Poi all'uscita è successo qualcosa che mi succede sempre più di frequente. Quasi un riflesso condizionato di patriottismo e di vergogna che mi induceva a fare scudo col mio corpo affinché i cinesi non vedessero e le loro macchine fotografiche non registrassero. Su una parte del portico un antico affresco e uno scempio incomprensibile. Mani diverse negli anni, con tutta probabilità di scolaresche “in viaggio di istruzione”, avevano sfregiato l'affresco con penne, pennarelli e incisioni con chiavi o punteruoli, variamente segnati dal tempo. Comprensibile (e comunque inaccettabile) che potesse succedere una volta, non immaginando la stupidità e l'incultura dei visitatori. Ma poi? Perché nessuna protezione e nessuna sorveglianza verso le pulsioni all’immortalità dei nostri studenti (studenti di che?). Così per sempre i visitatori sapranno che: Sebastiano ama Maria, Rita ama Federico, Antonio ha fatto l'amore con Anna, etc. D'accordo sulle battaglie simboliche (faccio finta di essere d'accordo), ma quando combatteremo le battaglie vere? E quale conoscenza abbiamo oggi dei nostri ragazzi? Comprendiamo cosa passa per le loro teste quando si esercitano a sfregiare la bellezza? Sfregiano perché sanno o perché non sanno? Per dispetto o per ignoranza? Non dovremmo poter sottrarci a tali domande. Le risposte sono indispensabili per definire obiettivi, strumenti e luoghi della Scuola e della comunità educante e direzione degli investimenti: maggior investimento nella didattica della Storia dell’arte e/o battaglia contro il nichilismo e/o maggior investimento nella proposta di senso per le nuove generazioni. Al monastero intitolato alla sorella di Benedetto, Santa Scolastica, ci aggreghiamo appena in tempo a un gruppo assistito da una giovane guida, preziosa per leggere le stratificazioni architettoniche secolari del monastero, a partire dal periodo romanico. Molto brava davvero. Una laureata in Storia dei Beni culturali? Probabile. Alla fine della visita aspettiamo di capire come e a chi pagare il servizio. La giovane guida ci anticipa. “Chi vuole può lasciare un’offerta in quel cestino”. Si allontana per non metterci in imbarazzo e il cestino raccoglie qualche euro in moneta. Così l’Italia dai mille campanili da 40 anni continua a perdere posizioni anche nell’economia del turismo. Il paese più ricco di storia e di bellezza nel mondo oggi ha 44 milioni di visitatori contro i 54 della Germania e i 79 della Francia. E i nostri archeologi, restauratori, storici dell’arte si dannano l’anima per un contratto co.co.co., accettano una offerta modesta da noi tranquilli pensionati, tranquillamente ignoranti, oppure prendono la paghetta da genitori e nonni. In questo assoluto non senso diventiamo variamente complici degli anonimi giovani sfregiatori di affreschi, in-sensati come loro. “Beni culturali e spreco. Promemoria per Bondi e Brambilla” era il titolo di precedenti riflessioni su temi a questo analoghi. http://www.rossodemocratico.ilcannocchiale.it/?id_blogdoc=2496194

domenica 4 marzo 2012

A che servono questi quattrini?

Ho assistito al "Nino Manfredi" di Ostia alla commedia "A che servono questi quattrini" rappresentata dalla compagnia di Luigi De Filippo. Non pensavo di divertirmi e pensavo che il lavoro di Armando Curcio mi avrebbe indotto a giudizi critici giacché sono un siciliano refrattario alla “saggezza” di molta produzione meridionale. La commedia era stata rappresentata nel '40 dai fratelli De Filippo e successivamente era diventata un film. Mi sono divertito moderatamente. Ma quel che mi ha agitato durante la rappresentazione è stato il pensiero dell'estrema attualità del testo. In sintesi, è la storia di un nobile, già ricco e poi fallito, un po' professore di filosofia stoica (naturalmente sempre fraintesa dagli allievi) un po' imbroglione, convinto assertore dell'inutilità del lavoro e del denaro e però certo che all'occorrenza basti fingere il possesso del denaro, senza la fatica di guadagnarlo. Insomma penso che per colpa prevalentemente del circolo, di alcuni amici, e degli stimoli ricevuti dal circolo, sono stato lì ad esaminare analogie. Su fb avevo condiviso una storiella che dimostrava come, senza produzione alcuna, 100 euro consegnati all'albergatore, passando per svariate mani e saldando svariati debiti producessero benessere a un gruppo numeroso. E un amico mi aveva fatto notare di aver ideato anche lui una storia simile. Solo che il denaro in oggetto nella sua variante era falso. Ma prima ancora avevo letto un articolo di Federico Rampini che riferiva di una teoria dello sviluppo iperkeinesiana che sta acquistando spazio crescente negli USA, la Modern Monetary Theory. Per capire mi limito a citare il titolo di Rampini. "E se la risposta alla crisi fosse stampare più soldi?" . E’ possibile? E’ possibile che l’economia reale, la fatica degli uomini, lo sforzo imprenditoriale di interpretare i bisogni umani, di organizzare l’impresa, di scegliere tecnologie e competenze sia cosa inutile o secondaria? Che conti solo l’intuizione politica/economica che basti pompare denaro, liquidità nelle vene del sistema perché tutto si aggiusti? Sì, certo, sto pensando alla droga. Ma non fa differenza. Siano vitamine o siano droga i quattrini, che differenza c’è? O la differenza c’è? Se c’è è la differenza fra l’economia di carta e quella reale. Spero che chi avrà imparato a prescindere dall’economia di carta, chi si sarà occupato di produrre banalmente cibo sano, di difendere le colline, Pompei e la scuola alla fine vinca. Come il passista nelle corse di bici che non insegue chi scappa (non teme lo spread). Continua col suo passo e pian piano raggiunge e lascia ai margini della strada un fuggitivo dopo l’altro. Fuor di metafora, mettendo tutti al lavoro. Semplicemente. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/02/21/se-la-risposta-alla-crisi-fosse.html

giovedì 1 marzo 2012

In memoria di Lucio e di noi stessi: come eravamo

Lucio Dalla era mio coetaneo, più vecchio di me di soli tre mesi. Lo ricordo agli inizi di carriera, sul finire del '67. Lo incontrai alla Casa del soldato di Bologna, il ghetto ricreativo di noi militari di allora. Cantò: "Quand'ero soldato". Era un periodo dolce/amaro, prevalentemente amaro. La Sicilia lasciata alle spalle con la mia ragazza - oggi mia moglie - "consegnata" alle cure dell'ex mio compagno di banco perché la facesse svagare un po' , senza perderla di vista. C'era innanzitutto la dolcezza e la passione indimenticata di Bologna. Il percorso per tornare in caserma pieno di osterie da cui si levava - udite, udite - "Bandiera Rossa". E lì, in caserma, un'altra città, un altro mondo, un'altra Costituzione. Il tenente istruttore che nell'ora di educazione civica faceva l'apologia del colpo di Stato dei colonnelli in Grecia. La domenica i soldati inquadrati e condotti alla messa fra imprecazioni e bestemmie degli ufficiali. Io che mi ribello e per tre volte finisco in gattabuia sul tavolaccio. Etc. A causa della mia partecipazione alla protesta per l'assassinio dello studente Paolo Rossi alla Sapienza, non ero stato considerato abile ad alcun grado, neanche di caporale, né a portare armi. Addetto all'Infermeria, come il figlio del generale colpevole di aver militato nella Resistenza. Come il giovane avvocato calabrese maoista, rigorosamente confinato senza gradi nelle cucine. Così eravamo e così conobbi l'ironia dissacrante di Dalla. Eravamo abituati a tollerare tutto. Poi venne il '68 e finalmente smettemmo di tollerare l'intollerabile.

sabato 11 febbraio 2012

La prostituzione precaria ovvero l'amore delle donne

Prima piccolo artigiano fallito poi operaio licenziato, un uomo di 44 anni del fu ricco nordest, decide di impiccarsi. La moglie, di 7 anni più giovane, lo salva appena in tempo. Poi lei, come le donne innamorate dei film o forse della realtà, lo rassicura dicendogli che ha trovato lavoro come badante di notte. Si tirerà avanti col suo stipendio fino a che lui non troverà un nuovo lavoro. Succede però che un giorno la polizia telefona al marito informandolo che la moglie è stata presa in una retata. Faceva la prostituta. Apparentemente quieta, comprensiva e grata la reazione del marito che anzi fa una sorta di breve relazione socio-economica sul fatto. “E’ una situazione che ho imparato ad accettare, ma che non mi sta assolutamente bene. Per questo continuo nella disperata ricerca di un lavoro. Qualsiasi, purché sia onesto”. E poi: “Non so quanto resista il padrone di casa prima di buttarci fuori. Mia moglie riesce a portare a casa anche centocinquanta euro in una sera, se va bene. Ma spesso torna a mani vuote. Con quello che guadagna riusciamo a mangiare. Ma così non può continuare”. Bene. Forse una volta eravamo intrisi di pregiudizi. Forse una volta a una moglie non sarebbe apparso naturale risolvere il problema drammatico della sopravvivenza in quel modo. Forse una volta un marito come il suo non avrebbe rilasciato una intervista come quella, in cui non appare chiaro se il disappunto sia per la tipologia del lavoro della moglie o per la sua natura precaria (non da posto fisso). Non formulo nessun giudizio morale. Caso mai mi dichiaro sbigottito per quello smisurato amore femminile che è amore per il compagno e – apparentemente (o no?) – disamore per la propria persona. Ho parlato di pregiudizi perché non escludo che la donna possa aver sentito quel prostituirsi come cosa non diversa che offrire il proprio corpo per un lavoro di fabbrica o la propria perizia come cosa non diversa dalla perizia di una manicure. E’ tempo che superiamo i nostri pregiudizi a riguardo? Peraltro da tempo presunte studentesse e casalinghe “insoddisfatte” si propongono nel mercato dei precari del sesso, probabilmente quasi sempre professioniste con forti competenze di marketing. Hanno capito l’attrattiva maggiore di un rapporto con una “dilettante”. Però adesso forse comincia a diventare autentico il mercato del sesso precario.
Significato per qualche aspetto simile attribuisco a un’altra storia di cui ho letto recentemente. Una grossa azienda statunitense di abbigliamento, la Ecko, propone con successo uno scambio: fatevi tatuare sul corpo il nostro marchio e in cambio avrete, vita natural durante, uno sconto del 20% sui nostri prodotti.
Magari l’offerta non “discrimina” gli uomini, ma immagino che per promuovere merci il corpo maschile abbia minor appeal. Mi sto chiedendo comunque: E’ questo l’epilogo della rivendicazione femminista “Il corpo è mio e ne dispongo come voglio?” Lo chiedo non retoricamente. Magari è tutto giusto.
Però – ripeto - mi preoccupa un po’ la reazione del marito di cui dicevo prima. Se il corpo femminile ha un mercato che quello maschile non ha, allora la crisi potrebbe lasciare integri i corpi degli uomini e aggredire con sesso e tatuaggi i corpi femminili, ultima riserva di famiglie senza risparmi e senza stato sociale.

Il gelo e i sensi di colpa

Della settimana scorsa e della prima emergenza neve ricordo il senso di colpa. Al normale, quotidiano, senso di colpa verso chi è senza lavoro si aggiungeva il senso di colpa eccezionale per chi andava al lavoro, affrontando pioggia, neve, gelo, mezzi pubblici in tilt. Insomma, mentre in genere il pensionato mi appare come un escluso dai piaceri della vita attiva, all'improvviso sentivo tutto il privilegio di quella condizione. Ero chiuso e protetto nella mia casa calda sul litorale romano, già risparmiato dall'infierire climatico su Roma, mentre anche le mie figlie, come milioni di italiani, non avevano altra scelta che sfidare la tormenta per apparire lavoratrici affidabili.
Così oggi la nemesi. Non posso mancare all'appuntamento in un ospedale lontano da casa nella capitale d'Italia, metropoli troppo estesa. Prendo il trenino e poi il bus imbacuccato come non mai, addirittura con cappello, sciarpa, guanti, ombrello, etc.. Mancano solo i mutandoni di lana e il pigiama felpato che portavo quando d'inverno, a Bologna, ero di guardia all'aperto davanti alla caserma del 17° Reggimento di artiglieria contraerea, giacché con gli anni comunque mi sono ringiovanito e liberato sempre più dei pesi eccessivi. All'andata soffro con moderazione: freddo e nevischio in faccia nello spostamento da un mezzo pubblico all'altro e nient'altro. Al ritorno è un incubo. Un'ora in attesa di un bus che non arriva, mentre la temperatura si abbassa e i piedi si congelano, sotto (???) una pensilina strettissima che finge di ripararti da pioggia, neve e vento. Un'anima buona poi mi avverte che il bus da lì passa ad ore imprecisate. Conviene prenderne un altro in direzione opposta, arrivare alla metro e prendere il trenino per Ostia. Così faccio, sperando di arrivare a casa prima che arrivi il peggio. Insomma ora sono qui di nuovo al calduccio e mi viene da pensare ai lavoratori mostrati l'altro giorno a Piazza Pulita, che fanno il cottimo all'inferno a spostare scatole di surgelati in un ambiente a -30 gradi, rinunciando alle pause per arrivare ai fatidici 1.000 euro al mese. I sensi di colpa e lo stupore per un mondo incomprensibile ritornano.

martedì 7 febbraio 2012

Shame, prima o dopo la politica

Parlo di un film per allontanarmi dalla politica. Un po’ perché la politica è troppo complicata per me. So quel che mi piace. So quel che non mi piace. Non ho ricette sicure per raggiungere l’obiettivo di quel mondo in cui mi piacerebbe vivere. Non riesco a illudermi – l’ho detto più volte – che basti rimuovere Berlusconi o Martone o Schettino o Monti o la finanza. Non sono neanche sicuro che basti rimuovere il mercato o il capitalismo, anche se questo sarebbe il cambiamento radicale che riesco a immaginare. Pare che abbiamo sperimentato anche questo col socialismo reale. Pare perché forse il socialismo potrebbe essere una cosa diversa. Pare, potrebbe.
Parlo di Shame perché il film mi ricorda decisive ragioni per andare oltre o prima della politica. Così posso sentirmi assolto per la mia “incompetenza”, come incompetenza in ultima analisi riguardante una cosa, grande quanto vuoi, ma comunque minore.
Non ho nemmeno gli strumenti per produrmi in una critica cinematografica. Su questo me la caverò in due righe.
Comincio col dire che non mi era mai capitato prima di essere parte di un cineforum improvviso e informale come un happening, all’uscita dal cinema. Le poche coppie presenti che rompono il ghiaccio con sguardi interrogativi e domande del tipo: “Scusi. Ho perso l’inizio. Ma era successo qualcosa?” “No, non era successo niente e non c’è nulla da spiegare” cerco inutilmente di affermare. Ma non c’è verso. Per spiegare l’abiezione e il dolore del protagonista consumati in ossessivi rituali sessuali qualcuno presume un trauma infantile, chi un incesto ancora lacerante, etc.
Il film divide il pubblico, con tutta evidenza. Non per la regia, non per la fotografia, non per la colonna sonora, non per gli attori, elementi tutti apprezzati. Mostrano delusione per il film quelli che vi leggono la storia di una dipendenza da sesso di un giovane, affascinante manager in una New York opulenta e livida. Questa parte del pubblico si affatica a cercare una spiegazione dell'origine della "malattia" e così evita di vedere quello che siamo o stiamo diventando. Cerca nella psicologia ciò che a mio avviso può trovare solo nell’antropologia, nell’uomo com’è oggi o addirittura come è sempre stato. Non servono, per dire, le riflessioni psicoterapiche, con la speranza di salvezza, del Freud più giovane. Servono le riflessioni del Freud più tardo e l’iscrizione di Eros e Thanatos nella parte costitutiva, ineliminabile, dell’umano. Il protagonista, Brandon, è solo l'avanguardia di una umanità vicina a scoprire l’abisso. La "malattia" (l'anomalia) non è di Brandon. E’ nella storia delle illusioni che abbiamo alle spalle: l'amore, la famiglia, la patria, la politica, etc.. Quando le illusioni cadono resta la solitudine davanti all'incubo della cosa impensabile e impronunciabile: la morte. Solo l'orgasmo - la piccola morte, la petite mort dei francesi - può farla dimenticare: per l'intensità anestetica del sesso, replicabile più di altre pratiche anestetiche, nelle innumerevoli formi possibili che il protagonista esibisce, dell'accoppiamento etero, omo, multiplo/orgiastico, dell'onanismo, delle infinite occasioni del sesso virtuale. E’ un eros potenzialmente “democratico” oggi, aperto a tutti, non solo al bellissimo e infelicissimo protagonista. E forse a quanti hanno creduto di assistere alla storia di una banale e rassicurante patologia individuale sfugge che, accanto al protagonista, esibiscono segni dell’invadenza totalitaria dell’eros anche i personaggi minori. La sorella del protagonista, tra un tentativo e l’altro di suicidio intervallato da accoppiamenti “gratuiti”. Così il suo partner di un momento. Così la ragazza incontrata nella metro che gode onanisticamente per quel che sembra l’annuncio di un rapporto. E invece il rapporto non c’è e non è neanche cercato. La ragazza, inutilmente inseguita, sparirà nella folla, sapendo di trovare all’occorrenza altre emozioni, dono di Eros. La vita però -ahimè - non può essere riempita da un orgasmo ininterrotto. Il protagonista attinge al fondo della libido e dello stordimento nella splendida scena dell'orgia mercenaria dai corpi bellissimi scolpiti con una fotografia innamorata e rapita. Lì l’orgasmo si mischia a singhiozzi disperati. Da lì Brandon sembra smettere di inseguire lo stordimento e l'oblio. Cos'altro troverà l'autore non dice. L'alternativa l'aveva già mostrata nell’ultimo tentativo di suicidio della sorella: vincere la morte, andandole incontro.
Penso a queste cose dunque. Alla New York opulenta paradigma dell’occidente opulento dalle opportunità infinite. E mi sembra che la disperazione sia l’esito di quella opulenza, come del suo rovescio, la penuria e la precarietà. Penso anche che in Italia abbiamo incontrato i segni di quella disperazione in analoga forma. E’ strano che non ci si pensi guardando il film. Abbiamo visto un uomo che in sé cumulava ricchezza, potere ed anche amore smisurato di folle adoranti, compromettere tutto per inseguire l’assoluto: il potere assoluto in un paese ridotto all’harem di un sultano. L’abbiamo conosciuto e non lo abbiamo veramente compreso perché non abbiamo compreso la disperazione di quell’uomo. Abbiamo inibito la nostra “comprensione” perché ci sembrava di assolverlo qualora lo avessimo compreso. Era giusto non assolverlo per aver messo in ginocchio un paese solo per disporre dell’harem che gli facesse dimenticare il mausoleo che lo aspetta ad Arcore. Dovevamo comprenderlo però perché ci ha indicato la strada che ci aspetta quando non saremo più distratti dalla fatica, dagli ideali e da quanto inventiamo per dimenticare la morte. E, secondariamente, ha reso pubblica una cosa normalmente taciuta: la sessualità degli anziani ed eros che mai non arretra .
Ora la scoperta di un dio e dell’immortalità mi sembra l’antidoto possibile all’eros distruttivo. Per chi – come me – è lontano da tale scoperta, resta la politica come speranza di superare il dolore della penuria e quello dell’abbondanza. Già, perché la politica viene dopo la filosofia che è la lente con cui guardiamo il mondo e però viene prima perché ci induce a scegliere una lente o un’altra lente. Non ero partito sapendo di arrivare a questo. Comunicando con gli altri comunichiamo con noi stessi e ci cambiamo. Anche Mc Queen, il regista di Shame, sospetto, cominciò a girare il suo film con quel titolo, accorgendosi forse poi che il tema non era la vergogna ma la paura: era Eros e Thanatos. Ma non cambiò il titolo. O forse continuò a pensare di aver parlato della patologia di un uomo. Io invece il mio titolo l’ho cambiato più volte, man mano che scoprivo di cosa veramente volevo parlare.

mercoledì 1 febbraio 2012

Raccomandati, sfigati, incattiviti, impotenti

E’ possibile che io stia diventando buono? Indulgente? Pietoso?
E’ possibile che i miei concittadini esorcizzino l’impotenza contro la paura incombente, scagliandosi contro il primo che passa, vivo o morto che sia?
Senza andare troppo lontano nell’ultimo mese il più facile bersaglio è stato il comandante del Concordia, Francesco Schettino: incapace e codardo. Noi abbiamo trovato per fortuna l’esempio positivo nella grinta del comandante della capitaneria del Giglio, Gregorio De Falco.. Con lui abbiamo gridato a Schettino: “Cazzo, salga sulla nave!” .
Solo dopo qualche giorno dall’incidente tragico e colpevole e dal diluvio di contumelie, mi capita finalmente di sentire diagnosi e implicite proposte di prevenzione da parte del sociologo Domenico Masi e dal giornalista Federico Rampini in una intervista della Gruber. Il primo punta l’indice contro l’assenza manifesta in Italia della cultura delle scienze dell’organizzazione. Tutti sappiamo di Einstein, nessuno di Taylor o Ford che ci avrebbero insegnato a prevenire il disastro., il secondo oppone alla prassi italiana del solitario capro espiatorio la prassi statunitense per cui chi ha nominato il colpevole è colpevole lui stesso e tenuto alle dimissioni. Insomma il povero Schettino non avrebbe mai dovuto essere chiamato a un ruolo di comando e comunque avrebbero dovuto essere previste procedure per rimediare all’impazzimento di un comandante. A disastro compiuto, molte teste dovrebbero cadere. Non sono analisi e diagnosi appassionanti, mi rendo conto, nulla di confrontabile alla goduria che ci offre la registrazione della viltà di un comandante. Sono solo analisi e diagnosi utili e corrette.

Poi, giorni fa – udite, udite! – il viceministro del lavoro, tale Michel Martone, si permette di chiamare “sfigati” i giovani italiani che si laureano dopo i 28 anni. Martone è uno facilmente antipatico per almeno un paio di ragioni:
A. E’ un figlio di famiglia con un padre che gli ha reso agevole una carriera fulminea, dottorato, ricercatore e poi titolare di cattedra universitaria a 33 anni. Quindi consulente ben retribuito nel precedente governo. Infine viceministro. Diciamo che non ho le prove, ma ho la certezza interiore che Martone sia un raccomandato.
B. Martone ha il ghigno del saputello, di quello che ha imparato una lezioncina e la ripete compiaciuto dall’alto della cattedra.

Grazie ancora alla Gruber, seguo l’intervista all’antipatico Martone. E purtroppo anche il bravo Vittorio Zucconi, da New York, infierisce contro il malcapitato. “Per essere equilibrati, dice Zucconi, se Martone ha potuto pronunciare quelle parole infelici, possiamo dirgli che ha detto una cazzata”. E’ facile sparare a zero sul poveretto caduto sul tappeto, no? Non è da meno l’adorabile Luciana Littizzetto che preferisce “minchiata” a cazzata, venendo in soccorso di una causa già vinta.
Io per la verità pensavo che “sfigato” significasse solo sfortunato, ma anche le mie figlie consultate, benché tutte laureate nei tempi giusti e brillantemente, solidarizzano con gli sfigati e sono incavolate col viceministro. “Sfigati” mi spiegano non significa semplicemente sfortunati. Ha una valenza negativa.
Così capisco che è del tutto irrilevante che Martone abbia potuto dire cose ragionevoli: che le imprese non guardano con favore chi impiega 10 anni a conseguire una laurea, soprattutto se non sa spiegare il perché (la condizione di studente lavoratore, ad esempio) o che è preferibile essere un brillante artigiano piuttosto che un laureato che si arrangia nei call center. Cose ragionevoli, anche se io stesso colgo in Martone sfumature classiste che i suoi detrattori non colgono o non esplicitano. Voglio dire che sono pressoché certo che anche il viceministro sarebbe quanto meno profondamente deluso se suo figlio un giorno gli annunciasse di voler fare l’idraulico. Sotto i discorsi ragionevoli persiste il vecchio classismo: l’università per i miei figli, per i tuoi l’officina che è così gratificante. Ma questo non c‘entra col merito della questione che è invece: gli antipatici hanno comunque torto. Così siamo costretti a rifiutare anche le buone pietanze proposte dallo chief che non ha saputo salutarci a dovere. Il compianto Padoa Schioppa che osava più di Martone nel linguaggio, osò dire che le tasse sono belle. Poi chiamò “bamboccioni” i ragazzi che si attardano nelle pareti domestiche. “Bamboccioni” non mi sembra più lieve di “sfigati”. Ma Padoa Schioppa non dovette scusarsi. Lui non aveva fama di raccomandato nel paese in cui l’usciere raccomandato è inflessibile contro il professore raccomandato. Nel paese in cui chi vale 100 deve raccomandarsi per avere 50. Nel paese in cui è stata abrogata la tassa di successione e i mediocri fratelli Elkan ereditano le fortune del brillante nonno.
Oggi, dulcis in fundo, mi capita di leggere su un blog commenti alla scomparsa del presidente Scalfaro e trovo, accanto a legittime critiche al suo passato di magistrato e a sue giovanili gesta da moralista, questi sintetici giudizi ad opera di coraggiosi autori dai fantasiosi nickname:
Wheel: uno in meno che percepisce i nostri soldi!
Kiko: uno stronzo con 3 autoblu in meno per gli italiani
Xxx: una pensione di senatore in meno

L’Italia frantumata degli impavidi, spietati critici di Schettino, come di Martone, come di Scalfaro non sa, non può, non vuole trovare progetti unificanti. L’Italia dei forconi vuole menare le mani col primo che passa. Si accontenterà di 15 centesimi di sconto sul carburante, del salvataggio di una industria decotta. Raccoglie con lo scolapasta i marosi della globalizzazione, boicottando le calze dell’Omsa delocalizzante. Non è capace di dire cose discutibili ma radicali. Potrebbe dire e pretendere, salendo compatta sui tetti o attendandosi presso i luoghi delle decisioni politiche:
Galera a chi usi il proprio ruolo per uso personale (raccomandazioni e illeciti lucri) .
Galera agli evasori
Disincentivazione delle merci troppo viaggianti e inquinanti
Blocco delle merci provenienti da paesi e fabbriche che violino i diritti umani
Elevata tassa di successione fino eventualmente all’esproprio
Prestito d’onore generalizzato per lo studio, per fare impresa, per fare casa
Subito il salario minimo sociale.

Ma quell’Italia non è interessata ad un nuovo senso comune. Ha paura di affermare principi per cui dovrebbe pagare un prezzo. E’ felice di potersi sfogare contro Schettino, Martone e i morti. Poi va a nanna.

giovedì 12 gennaio 2012

La ricchezza e il covone di letame

La destra periodicamente contesta alla sinistra di criminalizzare la ricchezza. Questo è uno di quei momenti. I poveri, o i non abbastanza ricchi, per i quali parlerebbe la sinistra sono accusati di invidia sociale. Invidia è il desiderio di qualità o cose possedute da altri. Fra queste cose la ricchezza. Al desiderio – è vero – si associa frequentemente l’odio verso la persona che detiene l’oggetto posseduto. C’è in questo momento invidia sociale verso i ricchi? Direi di sì, come spesso, se non sempre. Specifico del momento è invece la reazione stizzita all’invidia. La Santanchè né è un ragguardevole campione. Del resto l’offensiva contro l’invidia e la cosiddetta criminalizzazione della ricchezza si avvale di sponde autorevolissime. L’invidia è fra i sette vizi capitali nella dottrina della chiesa. Certo si gioca parecchio sull’ambiguità. Sembra talvolta che si voglia reagire a una presunta contestazione all’accumulazione come tale, il lavoro paziente della formica che accumula e ripara le provviste per l’inverno. Come se l’invidia per il ricco fosse condanna per la ricchezza, il risparmio, l’accumulazione.. Con altro disinvolto passaggio dialettico si finisce con il difendere il valore sociale del lusso e dello spreco che – storia antica – sarebbe fonte di lavoro e di occupazione. Magnifica in tal senso l’affermazione impavida di quel tale a passeggio per Cortina, anch’essa criminalizzata, impellicciato e accompagnato da avvenente impellicciata (se no, a cosa serve la ricchezza?), che proclama, da economista in vacanza, intollerante a possibili repliche :”L’austerità non fa girare l’economia!”. Insomma, solo grazie al consumo dei ricchi i poveri vivono o almeno sopravvivono. La sinistra è sostanzialmente in difesa rispetto a questo, come di fronte a tutto da qualche tempo. “No, per carità, nessuno criminalizza il ricco, purché paghi le tasse”, si balbetta a sinistra. Certo meglio che niente, pagare le tasse. E’ tutta qui la proposta dei progressisti? Una volta pensavo che la giustizia sociale fosse il loro (il nostro) obiettivo. La sinistra fa fatica a proporre linguaggi nuovi, abrogare parole vuote o dotare le parole consumate di nuovo significato.
Proverei - voglio dire – a menar vanto dell’invidia. L’invidia è il nome imposto dai privilegiati alla sete di giustizia sociale e di eguaglianza. Caso mai distinguerei l’invidia intelligente dall’invidia stupida. Stupido è invidiare una barca da 30 metri da chi c’è l’ha da 15. Stupido è invidiare la casa di 500 metri quadrati che non si riuscirà mai ad abitare. Ma questa variante stupida dell’invidia è l’ invidia dei ricchi verso i più ricchi. Però, per fortuna, in questa battaglia per il vocabolario che vede la sinistra tuttora soccombente qualche esempio di rivincita ci viene dal basso.
In TV, all’ultimo Infedele ho sentito, nel collegamento con un circolo del Pd di Lecco, un militante proporre una efficacissima metafora: la ricchezza è come il letame; il letame, se resta ammassato in un covone è sterile, se distribuito nel campo è prezioso. Sarebbe il caso di reclutare quel militante nell'esercito per un nuovo senso comune.

giovedì 5 gennaio 2012

Beppe Grillo, la malattia del linguaggio

Dissenso e condanna ha suscitato Beppe Grillo per il post “I botti di fine anno di Equitalia” nel suo blog, sul tema dei ripetuti attentati alla sedi dell’agenzia, esattore fiscale dello Stato. Cosa ha detto Grillo? “Se Equitalia è diventata un bersaglio bisognerebbe capirne le ragioni oltre che condannare le violenze. Un avviso di pagamento di Equitalia è diventato il terrore di ogni italiano. Se non paga l'ingiunzione "entro e non oltre" non sa più cosa può succedergli. Non c'è umanità in tutto questo e neppure buon senso. Monti riveda immediatamente il funzionamento di Equitalia, se non ci riesce la chiuda. Nessuno ne sentirà la mancanza”.

E’ un fatto che in Equitalia, pur nella sua natura di mero esattore e non certo di decisore delle politiche fiscali, si individui un bersaglio facile fra gli italiani confusamente alla ricerca di capri espiatori (ne ho voluto parlare in “Il capro espiatorio del 99%). Equitalia diventa così il parafulmine della rabbia sia per la debole lotta alla grande evasione sia per l’ implacabile repressione verso i piccoli evasori e i morosi. Ha ragione Grillo:” Non c’è umanità in tutto questo e neppure buon senso”.
Aggiungerei che c’è ancor meno umanità e buon senso nel fatto che a un pensionato sociale venga chiesto il rimborso a tappe forzate per emolumenti non dovuti per cui il pensionato disperato finisce col togliersi la vita.
Piccola digressione autobiografica. Informato di quanto può accadere in qualsiasi momento a un pensionato, ho avuto qualche remora, avendo ricevuto arretrati per la mia trascorsa attività lavorativa, a chiedere la conseguente rivalutazione della mia pensione. Temevo che rifacessero i conti e che, invece che aggiungere, mi chiedessero di rimborsare qualcosa, forse tanto, forse troppo. Spero bene quindi. Però questo è uno stress di cui il pensionato dovrebbe essere esentato..
Ma, tornando a Grillo e ai “giustizieri”, il punto è: Chi deve pagare il fio della colpa per tanta disumanità, il dirigente degli esattori o addirittura il malcapitato impiegato?
Grillo ha ammesso che bisogna “condannare le violenze” (stavo per dire: “meno male”). Ha “solo” aggiunto che “bisognerebbe capirne le ragioni”. Ingenuamente chiedo: e certo, di cosa non dovremmo capire le ragioni? Dobbiamo sempre capire le ragioni, se capire significa capere, afferrare, prendere, cioè intelligere (impossessarsi con la mente). Capire un fatto significa trovarne le ragioni, le cause, cioè esercitarvi l’intelligenza. Non dovremmo cercare di capire gli stupratori, gli assassini, gli evasori (e poi condannarli, metterli in galera, ovviamente)? Dovremmo forse preferire non capire, essere stupidi? O forse capire vuol dire giustificare, assolvere? E allora per dire semplicemente capire (senza annessa giustificazione o assoluzione alcuna) quali parole dobbiamo usare?
Faccio l’ingenuo perché - ahimè - è vero che in Italia capire significa ormai quasi sempre giustificare e assolvere. E in questo spazio equivoco si è mosso Grillo. Che ora può tranquillamente dire di non avere giustificato un bel niente e che però, visto che usa l’italiano del 21° secolo, con i significati sedimentati negli anni recenti, e si rivolge agli italiani del 2012, sa bene che capire le ragioni degli aggressori significa non capire le ragioni degli aggrediti perché capire nel pessimo italiano di questi anni significa questo.
E poi Grillo non ha dimostrato di capire un bel niente, se non ha indirizzato la rabbia legittima di alcuni tartassati su bersagli più corretti: il governo attuale, quelli passati, gli italiani che hanno votato questo parlamento, etc. A parte che mi sento di escludere che gli attentatori siano dei tartassati. E’ più probabile siano esponenti di quella folla, prevalentemente giovanile, annoiata, che ha voglia di menare le mani, di fare l’ultra negli stadi, di tirar fuori il coltello al semaforo, di devastare una città infiltrandosi in una manifestazione, di lanciare le bombe di capodanno a costo di amputarsi una mano o di uccidere un bambino: una umanità unita dal buio dell’intelligenza, più che divisa da pretestuose divisioni politiche. Direi che fra gli attentatori e i tartassati c'è lo stesso rapporto che ci fu tra le cosiddette Brigate rosse e la classe operaia cui dicevano di riferirsi: zero.
E’ questo che bisognerebbe capire secondo Grillo? Non lo ha detto.
Insomma, forse il succo semplice di questo discorso è che bisogna trovare un altro modo per dire capire giacché mettendo in soffitta un vocabolo diventato pericoloso, senza saperlo sostituire, rischiamo di contribuire a mettere in soffitta la comprensione, cioè l’intelligenza. Non possiamo permettercelo. E qualcuno dovrebbe preoccuparsi di curare il nostro linguaggio ammalato.

domenica 1 gennaio 2012

L'anno che è arrivato e l'epoca attesa

La discontinuità fra un anno e l’altro è ovviamente un “gioco”. Oggi, 1 gennaio, probabilmente non sarà tanto diverso da ieri, 31 dicembre dell’anno trascorso. E già sappiamo che somiglia molto al 1 gennaio del 2011: botti per festeggiare il nuovo anno, morti, feriti, amputazioni, accecamenti, anche di bimbi innocenti affidati alla protezione della “sacra famiglia” ovvero a padri stupidi e criminali e a madri colpevolmente passive. Le discontinuità geografiche/amministrative possono essere altrettanto futili di quelle temporali. Ricordo un gioco che facevo durante certi lunghi tragitti in auto con le mie figlie ancora bambine. Quando sull’autostrada veniva segnalata la fine del territorio campano e l’inizio di quello laziale e così via, regione dopo regione, mi divertivo a spiazzare le bambine, dicendo: “Inizia il Lazio. Vedete come è tutto diverso?”. Le figlie guardavano fuori dai finestrini e poi guardavano me, perplesse, ma senza saper obiettare. Ogni tanto ho pensato che questo giochino potesse essere un elemento di una pedagogia opposta alle pedagogie dell’identità e dei confini (Lega, Padania e, etc.). Vabbè, diciamo che con gli auguri per il nuovo anno ci esercitiamo semplicemente a immaginare il futuro e a pensare al futuro che vorremmo, all’epoca che vorremmo si aprisse. Una nuova epoca però non si apre in consonanza col calendario gregoriano. Può aprirsi di ottobre (12 ottobre 1492, scoperta dell’America) o di luglio (14 luglio 1789, presa della Bastiglia). Non so se qualcuno pensò che stesse aprendosi un’epoca il 12 ottobre del 1492 o il 14 luglio del 1789. Mi chiedo invece come io individuerei l’inizio di una nuova epoca, quale evento in Italia segnalerebbe una discontinuità paragonabile alla caduta del muro, ad esempio. Nella storia recente l’intervallo fra discesa in campo di Berlusconi 18 anni fa e la sua recente caduta segnano, se non un’epoca, una fase. Anche le fasi (brevi epoche “reversibili”) possono avere datazioni incerte o convenzionali. Allora potremmo dire, con attenzione alle discontinuità “istituzionali” che la fase si chiude con le dimissioni di Berlusconi (12 novembre 2011) oppure, con attenzione ai segni di una nuova antropologia (che preferisco), con la prima conferenza stampa del nuovo governo (4 dicembre 2011) e le lacrime della Fornero, i sentimenti ovvero, per così dire, la “tecnica” femminile al potere.
Noi, i democratici, e il Pd, abbiamo aperto questa fase facendo prevalere le ragioni culturali e di stile sulle opzioni economiche e sociali in senso proprio. Non avrei (non avremmo) perdonato a Berlusconi l’odiosa e classista deindicizzazione delle pensioni. Ma noi respiriamo per lo stile sobrio e professorale del governo Monti. E qualcuno (come me) si commuove per la commozione della ministra Fornero che tanto ha irritato gli italiani implacabili che si chiedono : “Perché versa il latte e poi piange?”. Diciamo che il governo Monti è l’anticamera per un’Italia dialogante in cui si parlerà finalmente delle cose e si decideranno cose. Nondimeno non avverto ancora segni di passaggio di epoca. I pensionati continuano a rubare al supermercato (così come i detenuti, i lavoratori licenziati e i piccoli imprenditori falliti continuano a suicidarsi). Come in un film ripetutamente visto, il direttore del supermercato chiama i carabinieri. I carabinieri offrono un pasto in caserma al ”delinquente”. “Non essere buoni, ma fare il mondo buono” proponeva qualcuno (Brecht, Sartre). La penso così. So che abbiamo le risorse per evitare di umiliare i pensionati e poi sentirci buoni perché non li denunziamo. E abbiamo le risorse per salvare figli e nipoti dal rischio dell’istupidimento effetto di un sistema anarchico che è incapace di dire cosa ci aspettiamo da loro e cosa garantiremo se sapranno – non più viziati, ma aiutati - studiare e impegnarsi in progetti condivisi che sapremo premiare, archiviando l’arbitrio e il favore. Il passaggio di epoca può essere colto da segnali diversi, purché radicali, giacché in ogni caso, certi mutamenti implicano altri mutamenti anche in aree distanti. Se allora un nuovo governo, anziché compiacersi dei 7 miliardi che confluiscono nell’erario per il gioco d’azzardo che costa agli italiani (guarda un po’ quelli meno abbienti) 70 miliardi l’anno, fosse capace di eliminare tale rapina, semplicemente chiudendo le sale giochi e facendo insegnare ai bambini e agli adulti in una scuola nuova la stupidità dell’azzardo a carte truccate, se un governo nuovo potesse far questo ricevendo il consenso dei cittadini per una esplicita tassazione sostitutiva di quella per l’azzardo, allora questo governo e questi cittadini sarebbero il governo e i cittadini di una nuova epoca. Né l’uno né gli altri potrebbero accettare l’abusivismo con l’alibi che creerebbe occupazione. Né l’uno né gli altri accetterebbero che si allevino ad alto costo intelligenze da regalare all’estero. E nonni e genitori sarebbero felici di pagare 100, 200 euro per costruire un sistema che garantisca a figli e nipoti, invece che la paghetta di nonni e genitori, un lavoro coerente con i loro studi o, per brevi intervalli, comunque un reddito. Un piccolo segnale radicale, l’abolizione delle sale giochi o la sanzione di 5 anni di lavori socialmente utili a chi insozzi per gusto vandalico una scuola o un monumento sarebbe fra i sassolini di una valanga, il segno di un cambiamento d’epoca verso un’Italia non più imbronciata: seria, sobria, severa, allegra, sviluppata.