venerdì 14 giugno 2013

Oscar Giannino e l'enigma della competenza


I talentuosi imbroglioni Succedono fatti che dovrebbero indurci in riflessioni radicali o in autentiche rivoluzioni nei modi di pensare. Invece. Invece i commenti si sprecano nella periferia del fatto. Un esempio per me è lo “scandalo” Giannino. Preferisco parlarne ora proprio perché è ormai inattuale ciò che ha scandalizzato. Una forse promettente carriera politica stroncata dalla rivelazione di una bugia. Il professor Zingales, economista prestigioso e titolato, nonché membro autorevole di Fermare il declino, il movimento promosso da Giannino, scopre e senza indugi rivela che il plurilodato giornalista economico ha mentito. Ha vantato nel proprio curriculum un master nella prestigiosa Università Chigaco Booth in cui, disgraziatamente per Giannino, insegna proprio Zingales. Il master in realtà non è stato mai conseguito. Le bugie si scoprono come si mangiano le ciliegie. Una dietro l’altra. Sicché si scopre che anche le due lauree (giurisprudenza ed economia) vantate sono una bugia. Giannino si vergogna – immagino – come un bambino colto a rubare la marmellata e si dimette. Un’altra carriera politica troncata da una bugia, come per Fini, Di Pietro, etc. Che dire? Non è una storia nuova. Qua e là nel mondo ministri e politici si dimettono per analoghe bugie (anche più lievi): una tesi scopiazzata, ad esempio. Ma appunto a me non interessa il dato etico. Giustissimo dimettersi. Censurabile l’imbroglio. A me interessa il fatto che nessuno sospettasse la verità. Né i lettori, né i dotti conferenzieri cui si accompagnava Giannino, né i prestigiosi economisti come Zingales. Per tutti – economisti compresi – Giannino era un grande esperto di cose economiche e nessuno si sarebbe stupito se i master fossero stati due invece che uno e le lauree tre invece che due. Non somiglia ad altre storie questa storia? I ragazzi universitari che il giorno prima della laurea confessano che non danno esami da anni, ad esempio. Conclusione tragica qualche volta. Oppure le migliaia di dentisti mai laureati e giustamente perseguiti per esercizio abusivo della professione. Qualche differenza con Giannino, ma lieve a mio parere. La professione di giornalista economico non è tutelata da norma alcuna. E – si può dire – non si rischia di ammazzare nessuno, fingendosi laureati ad Harvard. Però, nella maggior parte dei casi neanche i falsi dentisti hanno ammazzato qualcuno. Non riesco ad escludere che molti imbroglioni abbiano acquisito la competenza odontoiatrica per vie diverse dall’università. E’ probabile che gli abusatori del titolo siano praticoni che posti, di fronte a un problema imprevisto, metterebbero a rischio la salute (o la vita) del cliente. Beh, la stessa cosa può succedere al chirurgo laureatissimo e brillantissimo che soffre di depressione o di alcolismo o di insonnia. In questo caso la vittima potrà tranquillamente dire di essere stato assassinato da un dotto e certificato laureato. E non da un imbroglione. Non da un imbroglione? Non direi: la personalità e i disturbi della personalità sono parte integrale della competenza. Doris Day/Zingales, Clark Gable/Giannino La vicenda Giannino mi ha fatto ricordare un vecchio film, una commedia americana di un certo successo del 1958: Dieci in amore (Teacher’s pet). La citai a suo tempo nella mia tesi di laurea sul tema della formazione professionale. La cito di nuovo perché il tema resta attualissimo, come un nodo irrisolto. Nel film Doris Day è una docente universitaria di giornalismo, figlia di un famoso direttore di un rinomato giornale. Clark Gable è un giornalista valente che non ha dedicato molto tempo allo studio nelle aule, ma che sa tutto del suo mestiere. Brevemente, Gable si finge studente frequentando i corsi della professoressa Day. Ne diventa l’alunno prediletto. Poi la scoperta dell’inganno. Ma, infine, la scoperta che le tesi sul buon giornalismo della professoressa e del “praticone” coincidono. Insomma, il buon apprendimento teorico e il buon apprendimento esperienziale conducono allo stesso risultato. Bene. Noi abbiamo separato da tempo i percorsi di apprendimento formale da quelli dell’apprendimento informale (sul campo). E, dopo averli separati, cerchiamo ponti per collegarli, da qualche tempo. Dopo la scuola o l’università uno stage (il famigerato stage che è diventato tutt’altra cosa dall’apprendimento guidato sul campo), il tirocinio oppure – anche in Italia – l’apprendistato. Apprendistato con un intreccio aula/lavoro che non casualmente è nell’agenda degli ultimi governi nazionali. Anzi ha smesso di essere un dispositivo pensato per i mestieri di medio-basso livello, guardando anche alle competenze più alte (formazione superiore). Importiamo dalla Germania del cosiddetto sistema duale (scuola/azienda) il favore al dispositivo. Le competenze invisibili Ma cos’è la competenza di cui parliamo?. Secondo la definizione di Guy Le Boterf, da cui peraltro altre definizioni non sono distanti, “La competenza è un insieme, riconosciuto e provato, delle rappresentazioni, conoscenze, capacità e comportamenti mobilizzati e combinati in maniera pertinente in un contesto dato”. Nella definizione è assente – giustamente – ogni riferimento alla fonte della competenza ovvero ai canali formali (scolastici, universitari), non formali (corsi e attività frequentate a scopo di apprendimento) e informali (l’apprendimento non intenzionale o risultante da attività culturali, lavorative, etc.). Secondo i teorici della descolarizzazione, in prospettiva tutti apprenderemmo in modo informale o non formale. Intanto però l’informale stenta a ricevere quel riconoscimento che può certificare la competenza. O meglio, in diversi paesi europei e in Scandinavia e Danimarca soprattutto, si affermano procedure di riconoscimento. In Italia siamo fermi a qualche sperimentazione. Su questo e sul libretto formativo che dovrebbe raccogliere le competenze maturate dal cittadino. E le sperimentazioni riguardano essenzialmente la certificazione di competenze di mestiere cui non concorre la scuola, ma al più il sistema di formazione professionale. Così per il mestiere di badante, ad esempio. Al più ragioniamo di crediti derivanti da esperienze anche di volontariato (così a scuola) che consentirebbero un punteggio aggiuntivo o (università) una riduzione dei tempi del corso. Tutto questo col frequente sospetto di attivare un meccanismo di favore. Insomma è ragionevole pensare che Giannino (e qualcuno dei dentisti imbroglioni) abbia non solo dovuto fare a meno dell’università, ma anche che abbia potuto farne a meno. Costruendo la propria competenza con i propri ritmi, pause di mesi o di anni, immersioni in convegni e biblioteche, ricerca, confronto, lavoro. Perché mai Giannino non avrebbe dovuto ricevere una certificazione equipollente al titolo di laurea o al master? O, meglio, quale giustificazione hanno due distinti e non dialoganti certificazioni, una del sistema formale, l’altra proveniente dalla vita, dal lavoro e dalla validazione continua ricevuta dai pari? Ritengo davvero che quando avremo smesso di fingere di rispondere ai bisogni dei giovani oggi, delle donne domani e degli anziani dopodomani, ci dovremo occupare di questo. Dell’immane spreco costituto dalle competenze non riconosciute che ci passano accanto irriconoscibili quando cerchiamo una badante o un manager. Al contempo siamo assediati da titoli cartacei che nulla dicono sulle competenze possedute. E sappiamo che se dietro quei titoli c’erano un giorno competenze, quelle competenze oggi sono evaporate. Già è un altro tema mai all’ordine del giorno: chi verifica se oggi merito ancora il titolo di ragioniere o quello di ingegnere che meritai trenta anni fa? Immagino che chiedere di replicare periodicamente esami e abilitazioni sarebbe una proposta di riforma senza largo consenso.

giovedì 6 giugno 2013

La grandezza e la bellezza


Se troviamo affinità e rimandi fra due film lontani, difficile decidere quanto ciò dipenda dai nostri filtri personali o -oggettivamente - dallo spirito del tempo che li ispira e avvolge entrambi. Mi riferisco a due film caratterizzanti questo 2013: l’americano Il grande Gatsby di Luhrmann e l’italiano La grande bellezza di Sorrentino. Io sono portato a sospettare che il comune riferimento alla grandezza non sia un mero caso. E penso anche che la bellezza sia il dominante leit motiv che li apparenta. Il grande Gatsby è stato giudicato film di belle immagine e belle suggestioni musicali. Meno felice nella descrizione dei caratteri, non all'altezza del romanzo di Fitzgerald. Giudizio condivisibile. Anch’io sono stato attratto dalle immagini e dai suoni. Molto attratto dalla bellezza degli abiti e in particolare dal fazzoletto annodato alla testa di Daisy. Daisy è la donna amata in gioventù da Gatsby, quella per cui il protagonista si è fatto ricchissimo. Per meritarla e per offrirle lo sfarzo degno di lei. Non riuscirà però la strategia della conquista. Nel calcolo delle convenienze che contiene e orienta anche l’amore, Daisy sceglierà il conformismo. Non così Gatsby che concluderà nell’incontro imprevisto con la morte la propria ossessione d’amore. Un amore che esclude ogni altro interesse. Daisy e Gatsby – che scopriremo tanto diversi – almeno in ciò sono simili. Non identici. Nella bulimia di bellezza e di lusso. Assoluta in lei che non possiede altri interessi. Strumentale in lui, per arrivare a lei. Il grande Gatsby è anche un film sull'esibizione del lusso. C'è un giudizio del regista su quella esibizione sfrenata? Credo di sì. Nugoli di camerieri. Nelle cene un cameriere dietro ogni commensale. E poi quel domestico ( mi ha provocato quasi un tic, un "no, questo no") che stende un tappeto davanti a Daisy mentre scende dall'auto affinché le sue scarpe non ricevano l'oltraggio della polvere. Ho sentito (è la mia lettura o tutti lo hanno sentito?) l'inaccettabile normalità del lusso, l'inaccettabile, "normale" classismo nelle decine di servitori per un uomo solo. Decine di vite consumate servendo coctail e stendendo tappetini sotto i piedi dell'upper class. Ma anche le vite degli abitanti del lusso sprecate, infine. L'arte è ambigua e noi siamo irrimediabilmente ambigui. Ho ammirato - dicevo- il fazzoletto annodato attorno alla pettinatura di Daisy. La bellezza cioè. Quella bellezza resta bellezza, pur nella consapevolezza indignata che essa è generata dal lavoro oscuro di uomini, operai e servitori al servizio del lusso di parassiti e criminali. Questo è un esempio di assoluta ambiguità. Che ci accompagna e ci accompagnerà sempre. A meno che...Perché anche il Battistero di Firenze e Piazza del Campo e il Colosseo e la Gioconda ci sono perché il lavoro degli ignoti manovali produceva ricchezza mal distribuita che finiva nell'imbuto della domanda dei ricchi e delle remunerazioni di architetti e artisti. E però l'ambiguità fra giudizio estetico e giudizio etico qui si ferma. Perché resto convinto che senza lo sfruttamento e l'ingiustizia endemica, non avremmo avuto né Piazza Del Campo, né la Gioconda, né la bellezza di Daisy. Altrettanto convinto sono però che avremmo avuto altra bellezza, forse un minor numero di capolavori, ma una bellezza più continua e diffusa in ogni angolo del mondo. La grande bellezza di Sorrentino è la storia di una bellezza diversa, di una città dalla bellezza che acceca e uccide (letteralmente nel film, nel turista stroncato da infarto alla vista di Roma dal Gianicolo). Anche in Sorrentino, come in Luhrmann, c’è la bellezza struggente di un ricordo giovanile. Il “quello che poteva essere e non è stato”. Esempio “fra gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza” cui segue la normalità dello “ squallore disgraziato e l’uomo miserabile”. Jep Gambardella (Toni Servillo) è il protagonista della nuova dolce vita romana. Autore di un solo romanzo, quanto basta per definirsi “romanziere”. Anche lui, non dissimilmente da Gatsby, autore di un progetto di grandezza sulla propria esistenza. Un po’ in scala minore. La capacità di far fallire qualunque festa sarà la cartina di tornasole con cui misurerà la propria grandezza. Sullo sfondo quel ricordo giovanile che ferisce come una lama. La giovane fidanzata che gli offre lo sprazzo di bellezza della camicetta d’improvviso slacciata per mostrare i seni acerbi. Dopo quella apparizione solo “lo squallore disgraziato”. La bellezza degli eventi straordinari e irripetibili della vita quotidiana. Più intensi del contatto con la Gioconda e che però non si può tornare ad ammirare, assolutamente non replicabili. Alice che a due anni e mezzo, aspetta con la mamma sulla porta di casa. Vede arrivare in fila prima il papà, poi la nonna e infine il nonno. Ci conta e ci nomina man mano e quando arrivo io dice: “tuttiii”, facendo un gesto inclusivo con le braccine. E io sono felice di sentirmi incluso, parte del suo tutti . Non replicabile. Le chiedo il bis ogni tanto. Ma non è la stessa cosa. La sua voce, il contesto, tutto cambiato. La bellezza degli eventi irripetibili della vita quotidiana. In entrambi i film la festa è la cornice dominante. Il jazz degli anni 20 e la disco music di uno scorcio di anni 2000. In entrambi un ballare fino allo sfinimento. Con la felicità orgastica di un’epoca, quella degli anni 20, che ha incontrato uno sviluppo impetuoso e l’ascensore sociale. Per quei pochi ovviamente che comunque ci lasceranno i colori di un’epoca. In Sorrentino un danzare compulsivo nella bruttezza dei volti rifatti, in una catena di montaggio che assicura prezzi standard e bellezza standard (ovvero bruttezza). La bellezza della città (cioè del passato) e la bruttezza estetica e morale degli abitanti delle feste. La cocainomane che sniffa in cucina. Una Serena Grandi (coraggiosa o masochista) mostrata ora, tanti anni dopo l’aver incarnato l’immaginario erotico degli italiani. O la figura capolavoro del cardinale (Herlitzca) indifferente a fede e speranza e però autentico culture di raffinata gastronomia. Perché non è la fede (l’abito cardinalizio e la gastronomia sì) che può introdurre nel giro che conta. O, quando è la fede, è la fede teatrale della suora ultracentenaria. Sorrentino rinuncia a mostrare i cittadini normali, il lavoro, la fatica, la vita. Li mostra per un attimo nello sguardo perplesso, rassegnato e quietamente severo della domestica immigrata nell' assistere alle sniffate della padrona. Nel Verdone, giornalista di chiaro insuccesso, che annuncia il ritorno nella sua provincia. Sorrentino nasconde tutto nella Roma bellissima e addormentata delle albe e delle notti. Nel Grande Gatsby la bruttezza appartiene alla periferia e ai suoi abitanti, nella Grande bellezza la bruttezza è prerogativa della classe dirigente e dei parassiti che la circondano. Condivido l’interpretazione della Grande bellezza come un seguito della Dolce Vita. Un seguito appunto, non un remake. Direi che La dolce vita è invece assimilabile al Grande Gatsby, nella società che descrive. Nell’uno e nell’altro i fortunati gaudenti hanno anima, speranza, ricerca della gioia e inquietudine. Sono gli esponenti di una classe invidiata e invidiabile. Ma mentre Fellini avvolgeva col suo sguardo pietoso i suoi protagonisti, nella Grande bellezza i personaggi sbiadiscono in una poltiglia di non senso. Il seguito della Dolce vita è quindi una vita vuota e amara. Estetica del privilegio, implacabilmente critica nella Grande bellezza che è più un saggio sulla bruttezza, ambigua nel Grande Gatsby. Anni luce di distanza ovviamente dalla scoperta degli uomini normali, quelli che non fanno né storia né cronaca, anni luce dalla lezione del neorealismo. Così, dopo tanta grandezza e tanta bellezza, mi è venuta voglia di rivedere Umberto D.