sabato 8 febbraio 2014

Spunti interpretativi della filosofia e della pedagogia di Francesco I, il papa della modernità


Cosa avrà mai fatto Papa Francesco per creare tanto entusiasmo? Fra i laici forse più che fra i cattolici. Esordì col buona sera alla folla riunita in piazza S. Pietro il giorno della sua elezione. E da allora la provocazione innocente della normalità esibita: come quando salì in aereo portando in mano la ventiquattro ore personale. In ciò inizialmente vidi l'adeguarsi al costume vincente della sobrietà con la quale i potenti cercano nuova legittimità nel popolo. Così Marino, così Renzi che scelgono la bicicletta e che, se fossero un gradino meno importanti e meno impegnati a sedurre, sceglierebbero tranquillamente di andare in auto, magari grigia, se non blu. Avevo osato ironizzare con misura su questo, a proposito di Papa Francesco. Perché amo la sobrietà, eppure ne diffido se serve a nascondere il nulla. Ma, ammetto, perché ora mi è chiaro, che c'è di più in Francesco. Forse meno entusiasmante, ma certo più dirompente. Francesco vuole riformare una istituzione assai più rigida di uno Stato qualsiasi o di un partito. Vuole farlo scendendo e non più salendo. Scendendo si possono mettere in discussione principi dottrinali consolidati. Perché tutto può essere discusso, tranne il Vangelo. Possono invece essere discusse tutte le incrostazioni dottrinarie, cioè grande parte del sapere e del messaggio della Chiesa. Francesco oggi mi appare il primo papa autenticamente “moderno”, autenticamente interessato al dialogo con la modernità di cui egli stesso è nutrito. Sensibilità del tutto diversa non solo dal teologo Ratzinger ma anche dal comunicatore Woitila. Meno teologo del primo. Meno politico del secondo. O più politico, ma in altro senso. Nel senso di non guardare ai sistemi politici, quanto alle azioni necessarie alla conversione dell'uomo. Mi limito ora alla chiosa di poche affermazioni assolutamente rappresentative del moderno e della intenzione culturale e politica di Francesco. Mi basta riferirmi all'intervista sull'aereo che lo riportava in Vaticano dal viaggio in Brasile. E a brevi tratti della lunga e complessa pastorale Evangelii gaudium. Nell'intervista in aereo (29 luglio scorso anno) intanto c'è la consueta operazione di riportare alla semplicità del quotidiano l'apparente complessità di un fatto eccezionale quale i due papi in Vaticano. “Gli chiedo consiglio come a un nonno” risponde Francesco a chi gli chiede dei suoi rapporti con il predecessore. Poi l'apparente defilarsi rispetto all'impegno di difensore della dottrina consolidata. Chi sono io per giudicare? La strategia della sospensione del giudizio. Chi sono io per giudicare? Dice Francesco. Lo dice a proposito della presunta lobby gay in Vaticano. Contestabile è la lobby non l'orientamento sessuale che il Papa non vuole giudicare. Ma lo ripeterà altre volte, tenendo aperta la porta, ad esempio, alla comunione dei divorziati risposati. Chi sono io per giudicare? Verrebbe da dire: sei il successore di Pietro. A te la responsabilità di giudicare. In realtà il messaggio è: preparatavi a nuovi giudizi, a giudizi non conformi a quelli antichi. Poiché non vuole rompere con le gerarchie, chiede ripetutamente di essere aiutato coi loro consigli. Ma l'impressione è che talvolta sappia bene quali “consigli” gradirebbe ricevere. Spinge, suggerisce e aspetta che maturino. Il diverso da noi come opportunità e la critica alla “coerenza” Gli fanno osservare: “La Chiesa pentecostale in Brasile è forte”. E lui: "È vero, noi invece siamo in calo. Vi devo confessare che negli Anni '70 questi movimenti carismatici non li potevo vedere. Dicevo che confondevano la funzione liturgica con il samba. Ora ho cambiato idea e vedo il bene che fanno. Sono una grazia dello spirito e sono necessari". A parte ancora la semplicità del “noi siamo in calo”, quasi parlasse di un partito in competizione con altri, Francesco si dimostra un papa filosofo e pedagogo. Ci insegna che non dobbiamo infatuarci della nostra coerenza. Si può dire semplicemente: ho cambiato idea. Non mi viene in mente nessun papa che lo abbia fatto. Difficilmente lo fanno i politici. La prassi è di dire: sono cambiati tempi, ora è diverso. Il culto della coerenza pretende che non si dica: sono cambiato io. Lui invece lo dice. Nella risposta è presente un pensiero squisitamente politico. Normalmente per la Chiesa tutto ciò che è fuori dal noi è errore. Si può distinguere fra errore ed errante, come fece Giovanni XXIII. L'indulgenza verso chi erra nulla toglieva alla natura dell'errore come tale. Affermare, invece, come fa Francesco, il gesuita (che arditamente si domanda se lui debba ancora obbedienza al generale dei gesuiti) che un movimento distante dalla sua Chiesa possa svolgere un'opera positiva è dirompente ed è tipico del pensare politico. E' il pensare politico che può riconoscere l'utilità sistemica di un diverso da sé. Se la Chiesa cattolica non può intercettare determinati linguaggi e bisogni, sia benvenuto quel movimento che lo fa. “Sono necessari”, dice Francesco. Meglio rischiare che conservare Altri spunti ricavo dall' Evangelli Gaudium, la pastorale dello scorso 26 novembre. In II, 33, coerentemente con tutto lo spirito dell'esortazione, Francesco dichiara (mie le sottolineature in neretto): “La pastorale in chiave missionaria esige di abbandonare il comodo criterio pastorale del “si è fatto sempre così”. Invito tutti ad essere au­daci e creativi in questo compito di ripensare gli obiettivi, le strutture, lo stile e i metodi evangeliz­zatori delle proprie comunità..... Esorto tutti ad applicare con generosità e coraggio gli orientamenti di questo documento, senza divieti né paure..... “. Poche volte ho avvertito una critica così radicale alla abitudine, alla pigrizia, alla conservazione. Così Francesco aderisce al nucleo delle filosofie del cambiamento, quelle più attente alle ragioni del futuro che a quelle del passato. Vediamo più facilmente, perché ci è più comodo, le ragioni per cui le cose sono come sono. Ma dobbiamo scegliere la stada più difficile dell'immaginazione e del coraggio. La pedagogia della comunicazione Francesco non è solo un comunicatore. Nell' Evangelli gaudium si dimostra non solo un comunicatore istintivo, ma propriamente un teorico della buona comunicazione con le prescrizioni efficaci del buon maestro. Così dice: “Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di im­porre a forza di insistere. Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclu­sioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. La proposta si semplifica, senza perdere per questo profondità e verità, e così diventa più convincente e radiosa”. Lo dice come se avesse davanti un esercito di preti annoiati e noiosi o scolaretti che ripetano lezioni male apprese perché senza coinvolgimento. Non si insegna a forza di insistere, come accade nelle aule della vecchia pedagogia in cui vincerebbe chi legge venti volte anziché dieci. L'ho detto nel titolo: spunti. E discutibili interpretazioni e sottolineature di un laico.

mercoledì 5 febbraio 2014

La gente che sta bene: se l'ascensore è solo in discesa


"La gente che sta bene"(il titolo del film di Francesco Patierno) rischia di star male nell'Italia della crisi. L'ascensore sociale funziona prevalentemente in discesa. Se ne accorge un avvocato d'affari, (Claudio Bisio), che lavora in uno studio associato. La crisi produce tagli di commesse, anche agli studi legali. Un errore si paga e Bisio lo paga con il licenziamento. Da lì la ricerca ardua di un nuovo ascensore. Bisio crede di trovarlo nell'imprenditore squalo Diego Abatantuono. Lo perderà però in un appuntamento cruciale con la coscienza. Accade che lo squalo manifesti oscena soddifazione per la morte improvvisa della consorte che lo libera del peso economico del progettato divorzio. Bisio, coinvolto personalmente in quella morte, rinuncia all'appuntamento con l'ascensore. In compenso la moglie, Margherita Buy, anche lei avvocato, riprende la carriera smessa. Con efficienza e sobrietà femminile. Così si allude ad una possibile uscita dalla crisi nel segno di un nuovo protagonismo femminile. Il film, discontinuo e non memorabile, benché rappresentativo degli umori acidi del tempo attuale – nel movimento ondivago fra commedia e tragedia e nella conclusione consolatoria - lascia in sospeso i molti veleni tratteggiati. A parte l'aborto che non si farà. Il figlio bambino che simula svenimenti e morte. La figlia adolescente che a dodici anni inizia l'apprendistato alla sessualità consumistica. Scoprire il seno per i compagni e la macchina digitale, un po' per i giochi di "emancipazione" in voga, un po' forse per imparare a trarne profitto. Molti i quadretti. Alcuni godibili, alcuni eccessivi, sempre allarmanti. Fra gli eccessivi ed allarmanti, il linguaggio di Bisio davanti alla rivelazione della moglie, incinta nel momento sbagliato. Proibita la parola aborto. Non l'aborto. Il cui percorso basta chiamare così: “Implementare il percorso”. “Implementare”. Così l'Italia in crisi elabora una propria terapia linguistica. Fra i godibili il quadretto del bravissimo Carlo Buccirosso, maresciallo dei carabinieri. Il modesto – economicamente - maresciallo, nella stazione dei carabinieri, è dominus bizzoso e indecifrabile davanti all'esponente della “gente che sta bene”. Traduzione attuale del kafkiano spaesamento e della resa del cittadino davanti a un potere incontestabile. No, su questo nessun segno di speranza viene dal film. Peraltro l'arbitrio dei corpi separati è costitutivo della crisi permanente della democrazia, non già della crisi di questi anni. Lo trovremo intatto, a crisi conclusa. Se questa crisi avrà fine.