mercoledì 5 ottobre 2016

Frantz, fra nazionalismi e umanità, fra sentimento e ragione


Convenzionalmente  un film si attribuisce al suo regista. Di Frantz  ho apprezzato molto il regista, Ozon. Come  lo apprezzai in Giovane e bella in cui scandagliava  l’emergente insignificanza della sessualità. Ma qui, in Frantz, ho apprezzato  egualmente il soggetto,  come gli interpreti, il francese   Pierre Niney nella parte di Adrey e particolarmente l’interprete femminile Paula Beer, sobria e intensa nella parte di Anna . Ho apprezzato  soprattutto la splendida fotografia in bianco e nero. Di quest’ultima però  non ho ancora trovato l’autore.  Smetto di cercarlo e prendo atto che  dei coautori si prescrive l’oscuramento, come per i ghost writer di cui pochissimi conoscono i nomi benché  scrivano splendidi discorsi per i politici che affascinano il mondo.  Attribuisco la scelta del bianco e nero al progetto di immersione in un’epoca, il primo dopoguerra,  che appunto dobbiamo immaginare con i colori non colori della cinematografia dell’epoca.  Lubitsch   fu il primo a trasporre in film,  Broken Lullaby , un testo poi elaborato in forma teatrale di Maurice Rostand. Aggiungo che i frammenti di colore, giustificati dal separare realtà e fantasia mi sono apparsi un’operazione intellettualistica, cioè a freddo. 

Chi è il misterioso visitatore  della tomba di Frantz, uno fra i troppi assassinati dal primo macello mondiale, fra le vittime della sconfitta Germania? Lo sconosciuto si rivelerà come un amico francese di Frantz nel tempo in cui era ancora possibile essere amici fra francesi e tedeschi.  Ho scoperto vedendo il film il significato delle  annotazioni dei critici sulla conclamata omosessualità del regista. In effetti Ozon gioca a depistarci, facendoci credere ad un rapporto omo fra Frantz e il presunto amico francese. Come se suggerisse un altro film, un’altra storia rispetto a quella vera. Quella vera è la cecità nazionalista che fa percepire l’avversario in guerra come diverso, come altro da cui evitare il contagio. Questo sul piano delle emozioni collettive. Sul piano delle emozioni individuali il tema è quello della responsabilità. Ho la responsabilità della morte dell’altro solo  perché sono la persona che muove il grilletto, la persona che per prima muove il grilletto? Sono due domande diverse. Alla prima riusciranno a dare risposta innanzitutto le donne, Anna, fidanzata dell'ucciso e poi la madre. Direi perché le emozioni femminili più facilmente privilegiano la cura e la vita e guidano in tale direzione  gli occhi della ragione. Poi  anche il padre, l'anziano dottore la famiglia, cui il film assegna il ruolo (maschile?)  della rielaborazione razionale. No, responsabili sono i mandanti grandi e piccoli, anche i piccoli, i padri che ad ogni vittoria festeggiano con vino in Francia e birra in Germania. La responsabilità personale però è un sentimento più difficile da spegnere. Un conflitto irrisolvibile fra la ragione che mi proclama innocente perché comunque nel duello, imposto da altri, debbo per forza scegliere fra una vita, la mia, e un’altra vita, contro il cuore che ti dice  che comunque se non ti avesse incontrato quell’uomo  sarebbe vivo. La ragione in questo ha un compito immane.  Non prevarrà mai. Si può solo volere che non soccomba del tutto. Dopo il massacro mondiale, con le sanzioni crudeli agli sconfitti  e con  quel che venne poi, soccombette del tutto. E lasciò campo libero alle orride emozioni dello sterminio e del sadismo.   

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